L'uomo dei saldi
20071223
L'Uomo dei Saldi - Copertina
L'Uomo dei Saldi e altre pre-visioni di Maurizio Frizziero, maturate nel lontano 1982. Come dice Marco Vimercati ci sarebbe stato il tempo per... per cosa? Leggete la prefazione e lo saprete.
L'illustrazione di copertina è di Mario Quaglia
L'illustrazione di copertina è di Mario Quaglia
20071220
Indice
I titoli dei capitoli sono cliccabili
xx Prefazione
01 L’Uomo dei Saldi
04 La Casa Comoda
10 E le formiche si estinsero
13 Chi legge e chi no
16 I prati di casa nostra
19 Il futuro assicurato
23 L’uomo senza fantasia
26 E il cantante inforcò i pattini
29 La cravatta rosa
33 La Macchina della Mediocrità
36 Lasciapassare per meditare
39 Il potere occulto
41 Ama il prossimo tuo
43 Il cibo nell’Era della Gabelle
45 Il cielo della provincia
47 L’uomo che vive solo
51 La donna che vive sola
54 La donna e il ricatto dell’istinto
57 La donna nuova
60 La verifica dell’identità
62 Il trascorrere dei giorni
65 I geni dispersi
68 Il colore della libertà
71 Il costo della sicurezza
73 Le vittime della cultura
76 L’arte e i suoi escrementi
78 L’arte dello spettacolo
80 Il diritto alla critica
83 I saggi assenti
86 La conquista della libertà
88 Nessuno fumi al cinema
92 La fine
xx Prefazione
01 L’Uomo dei Saldi
04 La Casa Comoda
10 E le formiche si estinsero
13 Chi legge e chi no
16 I prati di casa nostra
19 Il futuro assicurato
23 L’uomo senza fantasia
26 E il cantante inforcò i pattini
29 La cravatta rosa
33 La Macchina della Mediocrità
36 Lasciapassare per meditare
39 Il potere occulto
41 Ama il prossimo tuo
43 Il cibo nell’Era della Gabelle
45 Il cielo della provincia
47 L’uomo che vive solo
51 La donna che vive sola
54 La donna e il ricatto dell’istinto
57 La donna nuova
60 La verifica dell’identità
62 Il trascorrere dei giorni
65 I geni dispersi
68 Il colore della libertà
71 Il costo della sicurezza
73 Le vittime della cultura
76 L’arte e i suoi escrementi
78 L’arte dello spettacolo
80 Il diritto alla critica
83 I saggi assenti
86 La conquista della libertà
88 Nessuno fumi al cinema
92 La fine
20071219
Prefazione
Non c'é quasi niente di sorprendente nel fatto che uno scriva un libro. Oggi quasi tutti lo fanno, perfino il sottoscritto. Quello che è più inconsueto è il fatto che uno scriva un libro, lo dimentichi in un cassetto e dopo venticinque anni, ritrovandolo, lo pubblichi praticamente senza rileggerlo. E potrei aggiungere che sembra scritto ieri. O forse domani. Essendo un libro che parla di contingenze dovrebbe essere estemporaneo, e invece è metastorico. Non so dire se sia bello o brutto, interessante o noioso, però è metastorico, forse profetico, come lo è il suo autore.
Siccome è difficile definire sia questo libro che il suo autore, sarei tentato di scrivere qualcosa di presuntamente intelligente per introdurre qualcosa di presuntamente intelligente. Cosa che -- tra l'altro -- mi eviterebbe il compito di (ri)leggere il libro. Invece opto per la strada meno spettacolare: scrivere una presentazione di quanto state per leggere e scrivere anche una presentazione del suo autore. Lui mi ha assegnato il compito di scrivere la prefazione, e siccome io a tutt'oggi continuo a reputarmi un suo subalterno come fui nel 1979, obbedisco. Allora, cominciamo dal testo. L'uomo dei saldi. Un'altro buon titolo avrebbe potuto essere "Manuale delle post- Marmotte", perché riguarda quello che è successo "dopo". Il mondo che c'era prima, quando c'erano le Giovani Marmotte, non c'è più. Bisogna infatti dire che quasi tutti i viventi contemporanei, e segnatamente quelli nati alla metà del precedente secolo, hanno assistito per la prima volta nella storia ad un fatto assai singolare, noto alle cronache con il vezzeggiativo di Apocalisse. Le nostre generazioni migliori, ovvero quelle nate prima della barbarie finale, hanno vissuto questo totale cambiamento di paradigma: sono passate da un mondo in cui tutto era ancora da fare (libertà, benessere, economia, modernità) a un mondo in cui tutto è già stato fatto (sostituzione della libertà con la permissione totale, del benessere con l'opulenza narcisistica, dell'economia con la finanza, della modernità con la centuplicazione delle opzioni) e dopo avere abbondantemente fermentato volge alla putrefazione. A pensarci bene c'è di che impazzire. Cosa che, infatti, è successa a molta gente, forse a tutti. Siamo passati dalle cose alla rappresentazione delle cose, il che è esattamente come far l'amore con una bambola gonfiabile, come vedere trasformati gli oggetti dei nostri desideri in cadaveri inorganici a causa di una specie di cancro radioattivo. Ecco quindi un taccuino postnucleare. Ma guai a pensare che sia un libro di recriminazioni o rimpianti. È un libro di adattamento. È un antidoto. È un trattato spicciolo di Environmental Anthropology, forse. O forse è un libro di consapevolezza post-newage. Un manuale di sopravvivenza per cadaveri, e anche un Nuovo Galateo. E forse qua dentro ci sono già tutte le metabolizzazioni successive ai vaffanculo dei Grillo e ai barbari di Baricco, alle prospettive futurologiche di Rifkin. L'autore giura che dalla prima stesura, quella del 1982, non è cambiato niente. E lo confermo. Lo lessi all'epoca, e c'è ancora una stampata con i fogli ingialliti e le lettere di una obsoleta margherita Olivetti. Capite, allora, la profezia?
Certo, sarebbe stato meglio leggerlo allora, quando forse ancora si poteva salvare il salvabile. Ma qui vediamo che qualche margine di sopravvivenza forse è rimasto. Qualche profezia può ancora aiutare noi topi a ballare, adesso che il gatto non si vede più. E non perchè è andato via. È solo diventato enorme: è un mondo-gatto così grande che non si avverte più la sua presenza, come avviene per le pulci, che percepiscono il cane come un territorio. Così i topi ballano, o credono di ballare. Balleremo fino alla fine, ma con qualche differenza tra gli uni e gli altri. Alcuni balleranno come gli imbecilli inconsapevoli di Amused to death di Roger Waters, altri balleranno con consapevole dignità, come l'Uomo dei Saldi.
A ben pensarci non c'è molto altro da fare, e la ricetta non può essere che quella detta in queste pagine: "dimenticare le regole della nostra formazione per accettare quello che siamo divenuti, nel mondo al quale siamo giunti. C'è chi ce la fa, dimenticando i fantasmi del passato, e che è pronto a sopportare il pensiero che la nostra società stia per finire. Senza traumi, perché il discorso è il solito: una vita è lunga una vita, e alternative ad una vita in un determinato momento non ce ne sono". È cinicamente celestiale. Per il sottoscritto è roba da guru, da profeti, da eroi mitologici. Ho sempre ammirato nei film americani quei protagonisti che scopano e festeggiano la notte prima della battaglia, quelli che quando sono sotto tiro mostrano sprezzo della morte e incalzano a male parole il loro carnefice o fanno battute sarcastiche. Io in genere le notti prima delle battaglie le passo seduto sul cesso. E non imploro i carnefici solo perché ho conosciuto Frizziero e da lui ho avuto diverse lezioni di dignità. Per affrontare le cose con dignità ci vuole distacco, e il distacco cambia il nostro punto d'unione con la realtà, (a volte forse lo sottrae del tutto) e comunque genera profezie. E tra le più accorte e utili, in queste pagine, ci sono quelle sui profili della società del denaro, sull'Era delle Gabelle, come la chiama lui. Sulla colossale truffa ai danni delle formichine. Sull'inconsistenza del denaro. Perché il denaro diventa interessante, quando a parlarne è qualcuno che ne è distaccato. Il distacco dell'autore dal denaro ne fa certamente un ottimo utilizzatore. A distanza di anni, dopo averlo definito generoso, prodigo, scialaquatore, devo rimangiarmi tutto e ammettere semplicemente il suo considerare il denaro come energia congelata, tipo una pila, una batteria o un bastoncino di pesce findus. Roba da consumare preferibilmente entro. Al giorno d'oggi forse basterebbe questa cifra a fare di un uomo un essere fuori dal comune, un mostro o un principe. Essere distaccato da una cosa per cui la gente -- tutta la gente -- sbava, brama e smania, gli da già una posizione regale, come di chi può solo dispensare e non può chiedere. Occorre rimarcare che questa posizione dell'autore gli consente (forse lo obbliga ad) una eccezionale autonomia di pensiero, e all'applicazione di questa autonomia in vari campi. Semiologo, uomo di marketing, pubblicitario, compratore compulsivo, imprenditore, fotografo, nottambulo (e nettambulo), antropologo, scrittore, collezionista, censore cinico, artista, guida spirituale e behavioristica: nessuno di questi termini definisce con esattezza il soggetto, ma nel cumulo si profila un po' la figura di un'intransigente dotato di un'enorme tolleranza, pronto a perdonare qualunque -- davvero qualunque -- peccato, tranne l'avarizia. Ossimoro vivente, destabilizzante proprio perché non inquadrabile in definizioni precotte, solo chi non lo conosce lo definisce "un uomo pieno di contraddizioni". C'è chi lo definisce un ottuso di larghe vedute o un genio cocciuto. Tra tutte le definizioni ossimoriche, che sono quelle che meglio definiscono l'autore, voglio ricordare quella di Gigi Miglietta: "un perdente di successo" (o un vincente senza allori). In realtà dire che Frizziero è un razzista solidale, che è un aristocratico democratico, che è un poeta razionalista o che è un ateo religioso, per coloro che lo conoscono sono solo banalità che non fanno altro che dettagliare meglio il Tao, simbolo di armonia cosmica e di pacifico convivere degli opposti. Ma per chi non lo conosce sono frasi che dicono poco o niente. Lasciamo quindi da parte le definizioni e avventuriamoci nella lettura: si affrontano argomenti diversi, e il tutto sembra solo una collana di articoli giornalistici.Ma non lasciamoci sfuggire la cosa più interessante, la costante: il punto di vista. L'osservazione che non è quella dell'uomo della strada e neanche quella dell'upper-class. Dell'intellettuale o dell'autoemarginato meno che mai. È fuori-classe. È uno stato. Uno stato profetico e regale, dignitosamente cinico, ricco di buongusto, logica, ironia ed euristica, che vale la pena di sperimentare. Vale la pena, anche per i più idioti, di provare a seguire Frizziero nella Casa Comoda, e da lì osservare la fermentazione, scoprendo magari che qualche distillato di questa fermentazione può ancora regalarci un po' d'ebbrezza.
Siccome è difficile definire sia questo libro che il suo autore, sarei tentato di scrivere qualcosa di presuntamente intelligente per introdurre qualcosa di presuntamente intelligente. Cosa che -- tra l'altro -- mi eviterebbe il compito di (ri)leggere il libro. Invece opto per la strada meno spettacolare: scrivere una presentazione di quanto state per leggere e scrivere anche una presentazione del suo autore. Lui mi ha assegnato il compito di scrivere la prefazione, e siccome io a tutt'oggi continuo a reputarmi un suo subalterno come fui nel 1979, obbedisco. Allora, cominciamo dal testo. L'uomo dei saldi. Un'altro buon titolo avrebbe potuto essere "Manuale delle post- Marmotte", perché riguarda quello che è successo "dopo". Il mondo che c'era prima, quando c'erano le Giovani Marmotte, non c'è più. Bisogna infatti dire che quasi tutti i viventi contemporanei, e segnatamente quelli nati alla metà del precedente secolo, hanno assistito per la prima volta nella storia ad un fatto assai singolare, noto alle cronache con il vezzeggiativo di Apocalisse. Le nostre generazioni migliori, ovvero quelle nate prima della barbarie finale, hanno vissuto questo totale cambiamento di paradigma: sono passate da un mondo in cui tutto era ancora da fare (libertà, benessere, economia, modernità) a un mondo in cui tutto è già stato fatto (sostituzione della libertà con la permissione totale, del benessere con l'opulenza narcisistica, dell'economia con la finanza, della modernità con la centuplicazione delle opzioni) e dopo avere abbondantemente fermentato volge alla putrefazione. A pensarci bene c'è di che impazzire. Cosa che, infatti, è successa a molta gente, forse a tutti. Siamo passati dalle cose alla rappresentazione delle cose, il che è esattamente come far l'amore con una bambola gonfiabile, come vedere trasformati gli oggetti dei nostri desideri in cadaveri inorganici a causa di una specie di cancro radioattivo. Ecco quindi un taccuino postnucleare. Ma guai a pensare che sia un libro di recriminazioni o rimpianti. È un libro di adattamento. È un antidoto. È un trattato spicciolo di Environmental Anthropology, forse. O forse è un libro di consapevolezza post-newage. Un manuale di sopravvivenza per cadaveri, e anche un Nuovo Galateo. E forse qua dentro ci sono già tutte le metabolizzazioni successive ai vaffanculo dei Grillo e ai barbari di Baricco, alle prospettive futurologiche di Rifkin. L'autore giura che dalla prima stesura, quella del 1982, non è cambiato niente. E lo confermo. Lo lessi all'epoca, e c'è ancora una stampata con i fogli ingialliti e le lettere di una obsoleta margherita Olivetti. Capite, allora, la profezia?
Certo, sarebbe stato meglio leggerlo allora, quando forse ancora si poteva salvare il salvabile. Ma qui vediamo che qualche margine di sopravvivenza forse è rimasto. Qualche profezia può ancora aiutare noi topi a ballare, adesso che il gatto non si vede più. E non perchè è andato via. È solo diventato enorme: è un mondo-gatto così grande che non si avverte più la sua presenza, come avviene per le pulci, che percepiscono il cane come un territorio. Così i topi ballano, o credono di ballare. Balleremo fino alla fine, ma con qualche differenza tra gli uni e gli altri. Alcuni balleranno come gli imbecilli inconsapevoli di Amused to death di Roger Waters, altri balleranno con consapevole dignità, come l'Uomo dei Saldi.
A ben pensarci non c'è molto altro da fare, e la ricetta non può essere che quella detta in queste pagine: "dimenticare le regole della nostra formazione per accettare quello che siamo divenuti, nel mondo al quale siamo giunti. C'è chi ce la fa, dimenticando i fantasmi del passato, e che è pronto a sopportare il pensiero che la nostra società stia per finire. Senza traumi, perché il discorso è il solito: una vita è lunga una vita, e alternative ad una vita in un determinato momento non ce ne sono". È cinicamente celestiale. Per il sottoscritto è roba da guru, da profeti, da eroi mitologici. Ho sempre ammirato nei film americani quei protagonisti che scopano e festeggiano la notte prima della battaglia, quelli che quando sono sotto tiro mostrano sprezzo della morte e incalzano a male parole il loro carnefice o fanno battute sarcastiche. Io in genere le notti prima delle battaglie le passo seduto sul cesso. E non imploro i carnefici solo perché ho conosciuto Frizziero e da lui ho avuto diverse lezioni di dignità. Per affrontare le cose con dignità ci vuole distacco, e il distacco cambia il nostro punto d'unione con la realtà, (a volte forse lo sottrae del tutto) e comunque genera profezie. E tra le più accorte e utili, in queste pagine, ci sono quelle sui profili della società del denaro, sull'Era delle Gabelle, come la chiama lui. Sulla colossale truffa ai danni delle formichine. Sull'inconsistenza del denaro. Perché il denaro diventa interessante, quando a parlarne è qualcuno che ne è distaccato. Il distacco dell'autore dal denaro ne fa certamente un ottimo utilizzatore. A distanza di anni, dopo averlo definito generoso, prodigo, scialaquatore, devo rimangiarmi tutto e ammettere semplicemente il suo considerare il denaro come energia congelata, tipo una pila, una batteria o un bastoncino di pesce findus. Roba da consumare preferibilmente entro. Al giorno d'oggi forse basterebbe questa cifra a fare di un uomo un essere fuori dal comune, un mostro o un principe. Essere distaccato da una cosa per cui la gente -- tutta la gente -- sbava, brama e smania, gli da già una posizione regale, come di chi può solo dispensare e non può chiedere. Occorre rimarcare che questa posizione dell'autore gli consente (forse lo obbliga ad) una eccezionale autonomia di pensiero, e all'applicazione di questa autonomia in vari campi. Semiologo, uomo di marketing, pubblicitario, compratore compulsivo, imprenditore, fotografo, nottambulo (e nettambulo), antropologo, scrittore, collezionista, censore cinico, artista, guida spirituale e behavioristica: nessuno di questi termini definisce con esattezza il soggetto, ma nel cumulo si profila un po' la figura di un'intransigente dotato di un'enorme tolleranza, pronto a perdonare qualunque -- davvero qualunque -- peccato, tranne l'avarizia. Ossimoro vivente, destabilizzante proprio perché non inquadrabile in definizioni precotte, solo chi non lo conosce lo definisce "un uomo pieno di contraddizioni". C'è chi lo definisce un ottuso di larghe vedute o un genio cocciuto. Tra tutte le definizioni ossimoriche, che sono quelle che meglio definiscono l'autore, voglio ricordare quella di Gigi Miglietta: "un perdente di successo" (o un vincente senza allori). In realtà dire che Frizziero è un razzista solidale, che è un aristocratico democratico, che è un poeta razionalista o che è un ateo religioso, per coloro che lo conoscono sono solo banalità che non fanno altro che dettagliare meglio il Tao, simbolo di armonia cosmica e di pacifico convivere degli opposti. Ma per chi non lo conosce sono frasi che dicono poco o niente. Lasciamo quindi da parte le definizioni e avventuriamoci nella lettura: si affrontano argomenti diversi, e il tutto sembra solo una collana di articoli giornalistici.Ma non lasciamoci sfuggire la cosa più interessante, la costante: il punto di vista. L'osservazione che non è quella dell'uomo della strada e neanche quella dell'upper-class. Dell'intellettuale o dell'autoemarginato meno che mai. È fuori-classe. È uno stato. Uno stato profetico e regale, dignitosamente cinico, ricco di buongusto, logica, ironia ed euristica, che vale la pena di sperimentare. Vale la pena, anche per i più idioti, di provare a seguire Frizziero nella Casa Comoda, e da lì osservare la fermentazione, scoprendo magari che qualche distillato di questa fermentazione può ancora regalarci un po' d'ebbrezza.
Marco Vimercati
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Vimercati
20071218
L'Uomo dei Saldi
La prima necessità dell'uomo è il superfluo
(Albert Einstein)
(Albert Einstein)
Le stagioni, con le loro regole e i loro umori, dettano agli uomini una precisa serie di consumi. Chi produce conosce bene l’andamento della richiesta e fa programmi con parecchi mesi di anticipo. Anche chi distribuisce non può permettersi di trovarsi impreparato di fronte alla richiesta e, pur cercando di diminuire il rischio, è costretto ad acquistare o per lo meno ad ordinare la merce con almeno una stagione di anticipo. L’unico ad utilizzare il presente è il consumatore che può permettersi di entrare in un negozio, guardare scegliere con calma e alla fine decidere. Il meccanismo d’acquisto è semplice: per le cose necessarie l’acquisto è preceduto da una serie d confronti e di considerazioni oggettive, poi il passo va fatto e di conseguenza viene fatto. Per le cose non necessarie il desiderio del possesso fa nascere l’impulso d’acquisto, il bene viene valutato e si decide di destinare ad esso una cifra ben precisa, pur sapendo di poterla modificare all’ultimo momento, spendendo naturalmente di più. Tutti questi discorsi sono validi finché uno deve fare i conti con i soldi, che in teoria dovrebbero servire prima per il necessario e poi per il superfluo. Ma in momenti in cui non si è ancora deciso se il superfluo sia più necessario del necessario c’è sempre grossa indecisione sul da farsi e le regole del gioco non le stabilisce più chi fa i programmi ma chi decide gli acquisti. Proprio tra loro si annida la serpe, l’asociale che fa sballare i piani della produzione e le previsioni del dettagliante, l’individuo che di punto in bianco decide di avere pagato in passato tutti i tributi che gli spettavano, di avere contribuito in misura sufficiente al sostentamento dei Gabellieri che con perline e specchietti l’hanno allettato e vessato per anni.
All’improvviso, senza alcun sintomo, costui si ammala di salute, rifiuta la persuasione e comincia ad usare il cervello: stacca la spina e si disinserisce dagli schemi tradizionali. La cosa più incredibile è che nessuno si accorge di queste deviazioni dalla norma e l’Uomo Liberato addirittura comincia a ricevere dei premi per la sua scelta. Scopre i saldi, le svendite fuori stagione, non più come fatto occasionale ma come regola d’acquisto. Vive in leggero ritardo i consumi degli altri, ma ad un prezzo che lo ripaga abbondantemente dell’attesa. Non ha fornitori abituali, perché acquista in occasioni particolari o perché ha capito che il Gabelliere tipo ha una particolare predilezione per i nuovi clienti e concede loro, in attesa di futuri e più proficui contatti, condizioni particolarmente vantaggiose. Ha scoperto nel supermercato una macchina che applica gabelle con minore soggettività o che ha tempi più lenti nell’applicare aumenti sulle giacenze. L’offerta speciale non funziona a meno che non si tratti di beni d’uso abituale che verrebbero egualmente acquistati ad un prezzo superiore. Qualche volta, di conseguenza, vive i consumi degli altri con marche diverse, meno note ma di uguale qualità.
La sua Casa Comoda riflette a pieno la mutazione da Uomo Medio a Uomo Saggio: gli oggetti simbolo del passato sono stati affiancati da altri, meno costosi anche se altrettanto confortevoli, il tivucolor ha solo 16 canali e non 1400 e il modello è vecchio di un paio d’anni, la musica viene riprodotta in maniera più che decente nella gamma dell’udibile e basta una bottiglia di whisky per gli amici di passaggio.
Un uomo così spende di meno e verrebbe naturale pensare che abbia minori gratificazioni, minori compensazioni. Sarebbe forse vero se la sua scelta fosse forzata, se per questioni di bilancio familiare fosse obbligato a limitarsi quotidianamente, nel necessario e nel superfluo. Con una scelta libera, una scelta che gli permette di limitare razionalmente la spesa nella fase d’acquisto, egli può trascorrere più tempo senza l’assillo del denaro, vivere con maggiore tranquillità. Questa vita diversa, individuale, costituisce un pericolo per la collettività, non si adatta alle regole di un mondo di troppi, di un sistema necessariamente impersonale e può portare, nel momento in cui questo stile individuale diventa tendenza di molti, a disastrose conseguenze. Ma qui si rientra in un vicolo cieco e si ricomincia ad indagare se sia morale lottare per raggiungere il benessere individuale quando ciò può creare danni alla collettività. Per il momento non posso impegnarmi a portare avanti questo problema, pur sapendo che solitamente ci si aspetta da chi scrive una presa di posizione: tra poco apre il negozio qui all’angolo e mi hanno detto che fa dei saldi a prezzi davvero incredibili!
Indice
20071217
La Casa Comoda
Da qualche parte, senz’altro sopra di noi, ci sono gruppi di persone che si occupano e si preoccupano del bene della collettività. Molto probabilmente stanno lottando con coraggio per andare avanti come se non stesse succedendo niente, per assicurare a tutti noi una sopravvivenza senza scossoni eccessivi. Una fatica improba perché malgrado tutti i loro sforzi siano concentrati sulla scelta di rimedi aderenti alla realtà è la realtà stessa che sfugge loro. E se mancano rimedi globali l’individuo deve lottare e assicurarsi una vita più vicina ai suoi desideri, senza curarsi se il suo agire sia in linea con il bene e con le necessità della società cui egli appartiene. Questa sua battaglia per la sopravvivenza sopisce quotidianamente il suo istinto per la vita e la ricerca della felicità viene sostituita dalla ricerca di un tivucolor con 1400 canali. Un tivucolor privato, da non ostentare, non più simbolo di condizione sociale ma compensazione di fatiche, gratificazione personale per centinaia di giornate di sacrificio, nuova tessera di quel grosso mosaico che è la casa d’oggi, una cuccia comoda e protettiva. Un tivucolor risparmiato sottraendo momenti di vita di gruppo che di giorno in giorno diventano troppo costosi per essere assorbiti con facilità da un bilancio familiare.
Si andava al cinema senza badare troppo al titolo del film, ci si immergeva in sale fumose senza protestare troppo, ci si sedeva in mezzo a sconosciuti senza che ciò ci desse fastidio. Si era in mezzo alla gente, lo si sentiva dal brusio sommesso, dagli odori stantii, dai colpi di tosse isolati. La gente addirittura applaudiva l’arrivo dei nostri o la punizione del cattivo, si commuoveva o si arrabbiava. L’intervallo tra il primo e il secondo tempo sembrava fatto apposta per guardarsi in giro, per cercare un volto noto tra i presenti, per bere una bibita o per sgranocchiare i semi di zucca.
Ricordi non lontani, ma ormai sembrano secoli. Alla cassa stava solitamente il proprietario che, nelle sere magre, aspettava a dare il via all’operatore sperando in qualche ritardatario. Poi, piano piano, si scoprì che anche il cinema era cultura e venne di moda il cine-forum dove, al termine della proiezione, ciascuno poteva dire la sua o, se lo preferiva, fare delle domande. Un nuovo modo per stare in mezzo alla gente, per capire, per confrontarsi, per imparare. Poi giunsero i tempi dell’impegno e, ormai critici esperti, si tornava a discutere dell’ultimo film di Antonioni o dei primi di Godard. Si andava al cinema seguendo titoli, attori, registi, recensioni e se ne usciva continuando il discorso al bar, su una panchina, camminando. Sempre in mezzo alla gente. Costava anche del denaro, ma poco. Dopo il cinema, prima del cinema, invece del cinema c’era un altro posto tranquillo, dove andare in mezzo alla gente, il bar. La gente, parlando del bar abituale, lo indicava in maniera possessiva, lo chiamava il mio bar. Un bar costruito in maniera diversa da quelli attuali: niente registratore di cassa, niente cassiera dal trucco perfetto, niente vetrinette tavolafredda, niente tante altre cose. Un’atmosfera tranquilla, quasi casalinga, dove padrone e clienti sedevano spesso allo stesso tavolo a chiacchierare come vecchi amici. Un posto dove si passava del tempo, spendendo anche del denaro, ma poco.
Lo stesso discorso per la trattoria, dove il padrone ci veniva a salutare come se fossimo ospiti, dove il cibo non si fregiava di nomi altisonanti ma aveva buoni sapori di casa. E anche qui c’era gente che pagava, volentieri, perché il conto era giusto.
Poi è arrivata l’Era delle Gabelle. La gente ha dovuto sottostare ad una lunga serie di vessazioni. lo stare insieme costa molto di più di quanto non sia ragionevole perché il Padrone Astuto ha capito che il pubblico non cerca cibo o bevande ma un posto dove comunicare con gli altri e ne ha intuito la potenzialità economica. Ha abbellito il suo bar, imbruttendolo, ha cercato di renderlo più comodo ed accogliente perché la gente, diminuita in quantità, si fermi più a lungo spendendo di più. Insoddisfatto di un listino obbligatorio e della sua oggettività, ha introdotto varianti non prevedibili per imporre costi non discutibili. Al ristorante la stessa cosa anche se con meno specchi e più oggetti di origine contadina. La bomba del rustico ha fatto centro e anche qui il Padrone Psicologo ha forzato la mano con tutte le libere associazioni verbali: rustico/buono, rustico/tradizione, rustico/genuino con la stessa fatica dell’affondare il coltello nel burro. E così, pagando la solita gabella, la gente si è ritrovata assieme senza protestare troppo, perché la scenografia tutto sommato era corretta e assomigliava molto ad una realtà già conosciuta.
L’Albero delle Gabelle ha dato i suoi frutti ma ora sta diventando secco: la gente che sa fare i conti ha scoperto che, se non si possono fare i conti senza l’oste, la cosa più semplice è eliminare l’oste. Per sostituirlo magari con un tivucolor da 1400 canali.
Si conclude così un ciclo artificioso e se ne inizia un altro, molto più privato; finisce l’Era delle Gabelle e inizia quella della Casa Comoda, una casa che difficilmente era esistita in passato. C’erano infatti case ricche e case povere ma tutte improntate alla funzionalità: la sala, per esempio, era per gli ospiti, la camera da letto dei ragazzi serviva esclusivamente ai ragazzi per andarci a dormire, la cantina serviva per il vino e come deposito di tutto il ciarpame che andava tenuto con cura per qualsiasi evenienza. La sala della Casa Comoda è ora il centro della vita familiare, ci si può finalmente stendere sul divano, consumarlo, schiacciarlo. Le bottiglie, una volta gelosamente chiuse a chiave, compaiono in bella vista su un mobile, la luce elettrica, ben dosata ed abbondante, non è più diretta contro il soffitto con effetti da sala d’aspetto di dentista, ma ben distribuita con zone d’ombra e di luce intensa. I quadri hanno riempito le pareti, libri e accessori rendono vissuta la stanza, amplificatore, giradischi, casse acustiche e tivucolor aumentano la vivibilità di questo locale chiave. Qui di inverno c’è un bel tepore, le finestre ormai hanno i doppi vetri perché si risparmia energia e quei fastidiosi rumori rimangono all’esterno. Dentro rumori non ce ne sono più perché la moquette ha ricoperto il vecchio pavimento di graniglia e il panno ci ha tolto anche la seccatura di chiamare ogni tanto l’imbianchino a rinfrescare le pareti. Il centro della Casa Comoda è a prova di notizia: qualsiasi cosa succeda all’esterno, per quanto grave sia, rafforza la convinzione di avere fatto un’ottima scelta nel dedicare tempo e denaro a questa vera e propria roccaforte dove non possono giungere i problemi del mondo esterno. Non entrano neppure i profumi della primavera o le notti stellate d’estate, ma qualche piccolo sacrificio bisogna pur farlo! D’altra parte se una volta era possibile incontrare gente dappertutto ora le cose non stanno più così e allora una casa comoda ti permette di stare di nuovo in mezzo ai tuoi amici.
In effetti una casa comoda è molto più socializzante della Casa Funzionale che non prevedeva una vita sociale intensa. Nella casa funzionale tutto era al suo posto, in sala le cose per gli ospiti, in tinello le cose per la famiglia, in cucina le cose per il cibo. Solo i ragazzi, con la loro tendenza al disordine, creavano un po’ di scompiglio, portandosi addirittura la radio in camera da letto. L’uso dei liquori era subordinato a improvvise situazioni di necessità/emergenza o a particolari occasioni. In entrambi i casi si utilizzava un bicchierino minuscolo, poco più di un ditale da cucito, perché, sia nell’un caso che nell’altro, non era certo la quantità a risolvere la situazione: una medicina va data con cautela e il superfluo va concesso con moderazione. Ora, nella casa comoda, si può bere tranquillamente, non c’è censura sui piccoli vizi, l’esperienza che ne deriva trasforma l’ospite in un intenditore e c’è un argomento in più per le serate conviviali. Per quando si sta zitti c’è sempre il tivucolor con 1400 canali al centro dell’attenzione pronto a sfornare migliaia di film pronti a suggerire modelli di vita e di comportamento. Battendo e ribattendo usi e consumi approdano sulle nostre rive e piano piano ci troviamo a servire un Martini al nostro vicino di casa o ad indossare la vestaglia da camera durante un’occasione galante, per non parlare d’arredamento e di accessori per la casa e tanto meno di discorsi impegnati su temi universali.
È un bene o un male che questo benedetto o maledetto tivucolor ci propini film, situazioni e modelli di età variante tra i dieci e i trent’anni? Se da una parte c’è una costante riproposta di oggetti e di beni come simboli di condizione sociale, dall’altra, in film fatti vent’anni fa, da gente che allora ne aveva mediamente cinquanta, c’è un grosso aggancio con la tradizione, c’è il recupero di comportamenti corretti di cui si sono, negli anni successivi, persi i modelli. Linguaggio e maniere, a parità di contenuti, si sono deteriorati, l’educazione è rimasta privilegio di pochi, il sacrificio è ormai una terra inesplorata. L’involontaria riproposta televisiva di un mondo ormai andato ci appare ingenua, fuori moda, inutile. Scavando a fondo ci accorgiamo che invece svolge un lavoro lento, sotterraneo, su individui che, avendo fatto la scelta di casa comoda, proprio per questo si trovano ben disposti all’assimilazione dei dati che vengono loro forniti. Se le cose vanno davvero così è come se la gente leggesse tutti i giorni un giornale vecchio di dieci anni, trovandoci scritto sopra tutti i giorni qualcosa di buono ma non riuscendo mai a raggiungere la realtà, ad avvicinarsi al presente. È, di conseguenza, automatico che avvenga una costante delega di responsabilità e che la fatica di preoccuparsi per il bene della collettività sia di quei pochi che hanno il coraggio di cercare di essere al passo coi tempi e di cercare rimedi aderenti alla realtà per andare avanti, senza scossoni eccessivi, come se non stesse succedendo niente. E il gatto si morde la coda perché la realtà sfugge loro e il singolo, giudicando inutile l’opera del delegato, si mette a lottare con tutte le sue forze per permettersi una casa comoda e un tivucolor a 1400 canali.
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Si andava al cinema senza badare troppo al titolo del film, ci si immergeva in sale fumose senza protestare troppo, ci si sedeva in mezzo a sconosciuti senza che ciò ci desse fastidio. Si era in mezzo alla gente, lo si sentiva dal brusio sommesso, dagli odori stantii, dai colpi di tosse isolati. La gente addirittura applaudiva l’arrivo dei nostri o la punizione del cattivo, si commuoveva o si arrabbiava. L’intervallo tra il primo e il secondo tempo sembrava fatto apposta per guardarsi in giro, per cercare un volto noto tra i presenti, per bere una bibita o per sgranocchiare i semi di zucca.
Ricordi non lontani, ma ormai sembrano secoli. Alla cassa stava solitamente il proprietario che, nelle sere magre, aspettava a dare il via all’operatore sperando in qualche ritardatario. Poi, piano piano, si scoprì che anche il cinema era cultura e venne di moda il cine-forum dove, al termine della proiezione, ciascuno poteva dire la sua o, se lo preferiva, fare delle domande. Un nuovo modo per stare in mezzo alla gente, per capire, per confrontarsi, per imparare. Poi giunsero i tempi dell’impegno e, ormai critici esperti, si tornava a discutere dell’ultimo film di Antonioni o dei primi di Godard. Si andava al cinema seguendo titoli, attori, registi, recensioni e se ne usciva continuando il discorso al bar, su una panchina, camminando. Sempre in mezzo alla gente. Costava anche del denaro, ma poco. Dopo il cinema, prima del cinema, invece del cinema c’era un altro posto tranquillo, dove andare in mezzo alla gente, il bar. La gente, parlando del bar abituale, lo indicava in maniera possessiva, lo chiamava il mio bar. Un bar costruito in maniera diversa da quelli attuali: niente registratore di cassa, niente cassiera dal trucco perfetto, niente vetrinette tavolafredda, niente tante altre cose. Un’atmosfera tranquilla, quasi casalinga, dove padrone e clienti sedevano spesso allo stesso tavolo a chiacchierare come vecchi amici. Un posto dove si passava del tempo, spendendo anche del denaro, ma poco.
Lo stesso discorso per la trattoria, dove il padrone ci veniva a salutare come se fossimo ospiti, dove il cibo non si fregiava di nomi altisonanti ma aveva buoni sapori di casa. E anche qui c’era gente che pagava, volentieri, perché il conto era giusto.
Poi è arrivata l’Era delle Gabelle. La gente ha dovuto sottostare ad una lunga serie di vessazioni. lo stare insieme costa molto di più di quanto non sia ragionevole perché il Padrone Astuto ha capito che il pubblico non cerca cibo o bevande ma un posto dove comunicare con gli altri e ne ha intuito la potenzialità economica. Ha abbellito il suo bar, imbruttendolo, ha cercato di renderlo più comodo ed accogliente perché la gente, diminuita in quantità, si fermi più a lungo spendendo di più. Insoddisfatto di un listino obbligatorio e della sua oggettività, ha introdotto varianti non prevedibili per imporre costi non discutibili. Al ristorante la stessa cosa anche se con meno specchi e più oggetti di origine contadina. La bomba del rustico ha fatto centro e anche qui il Padrone Psicologo ha forzato la mano con tutte le libere associazioni verbali: rustico/buono, rustico/tradizione, rustico/genuino con la stessa fatica dell’affondare il coltello nel burro. E così, pagando la solita gabella, la gente si è ritrovata assieme senza protestare troppo, perché la scenografia tutto sommato era corretta e assomigliava molto ad una realtà già conosciuta.
L’Albero delle Gabelle ha dato i suoi frutti ma ora sta diventando secco: la gente che sa fare i conti ha scoperto che, se non si possono fare i conti senza l’oste, la cosa più semplice è eliminare l’oste. Per sostituirlo magari con un tivucolor da 1400 canali.
Si conclude così un ciclo artificioso e se ne inizia un altro, molto più privato; finisce l’Era delle Gabelle e inizia quella della Casa Comoda, una casa che difficilmente era esistita in passato. C’erano infatti case ricche e case povere ma tutte improntate alla funzionalità: la sala, per esempio, era per gli ospiti, la camera da letto dei ragazzi serviva esclusivamente ai ragazzi per andarci a dormire, la cantina serviva per il vino e come deposito di tutto il ciarpame che andava tenuto con cura per qualsiasi evenienza. La sala della Casa Comoda è ora il centro della vita familiare, ci si può finalmente stendere sul divano, consumarlo, schiacciarlo. Le bottiglie, una volta gelosamente chiuse a chiave, compaiono in bella vista su un mobile, la luce elettrica, ben dosata ed abbondante, non è più diretta contro il soffitto con effetti da sala d’aspetto di dentista, ma ben distribuita con zone d’ombra e di luce intensa. I quadri hanno riempito le pareti, libri e accessori rendono vissuta la stanza, amplificatore, giradischi, casse acustiche e tivucolor aumentano la vivibilità di questo locale chiave. Qui di inverno c’è un bel tepore, le finestre ormai hanno i doppi vetri perché si risparmia energia e quei fastidiosi rumori rimangono all’esterno. Dentro rumori non ce ne sono più perché la moquette ha ricoperto il vecchio pavimento di graniglia e il panno ci ha tolto anche la seccatura di chiamare ogni tanto l’imbianchino a rinfrescare le pareti. Il centro della Casa Comoda è a prova di notizia: qualsiasi cosa succeda all’esterno, per quanto grave sia, rafforza la convinzione di avere fatto un’ottima scelta nel dedicare tempo e denaro a questa vera e propria roccaforte dove non possono giungere i problemi del mondo esterno. Non entrano neppure i profumi della primavera o le notti stellate d’estate, ma qualche piccolo sacrificio bisogna pur farlo! D’altra parte se una volta era possibile incontrare gente dappertutto ora le cose non stanno più così e allora una casa comoda ti permette di stare di nuovo in mezzo ai tuoi amici.
In effetti una casa comoda è molto più socializzante della Casa Funzionale che non prevedeva una vita sociale intensa. Nella casa funzionale tutto era al suo posto, in sala le cose per gli ospiti, in tinello le cose per la famiglia, in cucina le cose per il cibo. Solo i ragazzi, con la loro tendenza al disordine, creavano un po’ di scompiglio, portandosi addirittura la radio in camera da letto. L’uso dei liquori era subordinato a improvvise situazioni di necessità/emergenza o a particolari occasioni. In entrambi i casi si utilizzava un bicchierino minuscolo, poco più di un ditale da cucito, perché, sia nell’un caso che nell’altro, non era certo la quantità a risolvere la situazione: una medicina va data con cautela e il superfluo va concesso con moderazione. Ora, nella casa comoda, si può bere tranquillamente, non c’è censura sui piccoli vizi, l’esperienza che ne deriva trasforma l’ospite in un intenditore e c’è un argomento in più per le serate conviviali. Per quando si sta zitti c’è sempre il tivucolor con 1400 canali al centro dell’attenzione pronto a sfornare migliaia di film pronti a suggerire modelli di vita e di comportamento. Battendo e ribattendo usi e consumi approdano sulle nostre rive e piano piano ci troviamo a servire un Martini al nostro vicino di casa o ad indossare la vestaglia da camera durante un’occasione galante, per non parlare d’arredamento e di accessori per la casa e tanto meno di discorsi impegnati su temi universali.
È un bene o un male che questo benedetto o maledetto tivucolor ci propini film, situazioni e modelli di età variante tra i dieci e i trent’anni? Se da una parte c’è una costante riproposta di oggetti e di beni come simboli di condizione sociale, dall’altra, in film fatti vent’anni fa, da gente che allora ne aveva mediamente cinquanta, c’è un grosso aggancio con la tradizione, c’è il recupero di comportamenti corretti di cui si sono, negli anni successivi, persi i modelli. Linguaggio e maniere, a parità di contenuti, si sono deteriorati, l’educazione è rimasta privilegio di pochi, il sacrificio è ormai una terra inesplorata. L’involontaria riproposta televisiva di un mondo ormai andato ci appare ingenua, fuori moda, inutile. Scavando a fondo ci accorgiamo che invece svolge un lavoro lento, sotterraneo, su individui che, avendo fatto la scelta di casa comoda, proprio per questo si trovano ben disposti all’assimilazione dei dati che vengono loro forniti. Se le cose vanno davvero così è come se la gente leggesse tutti i giorni un giornale vecchio di dieci anni, trovandoci scritto sopra tutti i giorni qualcosa di buono ma non riuscendo mai a raggiungere la realtà, ad avvicinarsi al presente. È, di conseguenza, automatico che avvenga una costante delega di responsabilità e che la fatica di preoccuparsi per il bene della collettività sia di quei pochi che hanno il coraggio di cercare di essere al passo coi tempi e di cercare rimedi aderenti alla realtà per andare avanti, senza scossoni eccessivi, come se non stesse succedendo niente. E il gatto si morde la coda perché la realtà sfugge loro e il singolo, giudicando inutile l’opera del delegato, si mette a lottare con tutte le sue forze per permettersi una casa comoda e un tivucolor a 1400 canali.
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E le formiche si estinsero
Si consumava anche una volta. Si acquistava, si seguivano le mode, si buttavano via, anche una volta, dei quattrini. Non molti, sia perché le occasioni di spenderli male erano minori, sia perché il necessario veniva prima del superfluo in un’epoca di austerità dove era facile stabilire degli ordini di priorità. Per consumo si intendeva logorio e dato che la qualità era di gran lunga superiore a quella dei nostri giorni il consumo era molto limitato. L’indumento logoro, cessata la sua funzione, difficilmente veniva gettato perché, proprio nel momento in cui veniva smesso, iniziava la sua seconda vita. Con un po’ di tempo e un pizzico di creatività il capo, smontato, rivoltato, tagliato subiva nuove e diverse destinazioni. Nella peggiore delle ipotesi finiva, piegato e ripiegato in attesa di riutilizzarlo, sotto naftalina in un vecchio mobile della soffitta o della cantina. Questi locali hanno avuto fino a pochi anni fa un’importanza strategica, pur mutando pian piano la loro destinazione, passando da dispensa a magazzino. Parecchi decenni fa ci venivano accumulati infatti cibi e vini, in cantina quelli che avevano bisogno di temperature fresche e costanti, in soffitta il resto che doveva essere fresco e aerato. Poi la casa decise di cambiarsi, di rinnovarsi: tutto ciò che veniva sostituito non andava regalato, venduto, buttato via. Veniva immagazzinato con la certezza che, prima. o poi, sarebbe servito. D’altra parte cibo e vino cominciavano a trovarsi facilmente, potevano pure essere portati a domicilio senza alcun aggravio di spesa e soprattutto non si era più obbligati a quei fastidiosi salti in cantina quando mancava qualcosa. La cantina e/o la soffitta acquistano una loro vita indipendente, vengono quasi dimenticate così come viene dimenticato spesso tutto quello che contengono. L’importante era conservare, non gettare via niente.
Questo schema si trasmise di padre in figlio, di madre in figlia, divenne una regola dettata dalla saggezza e dalla previdenza, un monito perché la gente fosse sempre pronta ad affrontare tempi più duri. I periodi di guerra avevano insegnato molto, avevano prodotto più formiche che cicale. Il ricordo dei tempi bui pian piano cominciò a svanire e di conseguenza l’inutilità del sacrificio si annidò nelle coscienze. Mancando il presupposto per continuare ad esistere, le formiche si estinsero. Rimase però radicato lo schema dell’accumulo delle cose inutili che porta a paradossali collezioni di oggetti usati diventati inservibili. Il trauma più grave per l’ex formica o per il suo discendente diretto, nato ed educato in tempi d’austerità, è il meccanismo, assolutamente nuovo dell’usa-e-getta, nato da nuovi schemi economici, dettato da un salto di qualità delle filosofie di produzione, in ogni caso rottura col passato e con la tradizione.
L’accendino, ormai scarico, da gettare, una lattina vuota di Coca Cola, un televisore vecchio di vent’anni, un orologio annegato durante la doccia, tutti questi oggetti – ed altri – devono essere recuperati. La più facile tra le operazioni di recupero, è l’inserimento dell’oggetto in una collezione di oggetti simili, una operazione dove un criterio oggettivo può regolare l’annessione dei nuovi pezzi. Si può invece compiere un’altra operazione, più soggettiva; rintracciare nell’oggetto ormai degradato delle componenti estetiche che ci permettano di salvarlo dalla pattumiera. Se ci poniamo il problema in questi termini avremo sicure giustificazioni nel raccogliere e nel tenere tutto, una massa di ciarpame priva di qualsiasi valore. Una fatica inutile. Come quando mettiamo in frigorifero gli avanzi del cibo per buttarli via dopo qualche giorno.
P.S. Comunque tranquillizzatevi, la gente ha la tendenza ad abituarsi a tutto. Le soffitte non ci sono più, ormai si butta via tutto.
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Questo schema si trasmise di padre in figlio, di madre in figlia, divenne una regola dettata dalla saggezza e dalla previdenza, un monito perché la gente fosse sempre pronta ad affrontare tempi più duri. I periodi di guerra avevano insegnato molto, avevano prodotto più formiche che cicale. Il ricordo dei tempi bui pian piano cominciò a svanire e di conseguenza l’inutilità del sacrificio si annidò nelle coscienze. Mancando il presupposto per continuare ad esistere, le formiche si estinsero. Rimase però radicato lo schema dell’accumulo delle cose inutili che porta a paradossali collezioni di oggetti usati diventati inservibili. Il trauma più grave per l’ex formica o per il suo discendente diretto, nato ed educato in tempi d’austerità, è il meccanismo, assolutamente nuovo dell’usa-e-getta, nato da nuovi schemi economici, dettato da un salto di qualità delle filosofie di produzione, in ogni caso rottura col passato e con la tradizione.
L’accendino, ormai scarico, da gettare, una lattina vuota di Coca Cola, un televisore vecchio di vent’anni, un orologio annegato durante la doccia, tutti questi oggetti – ed altri – devono essere recuperati. La più facile tra le operazioni di recupero, è l’inserimento dell’oggetto in una collezione di oggetti simili, una operazione dove un criterio oggettivo può regolare l’annessione dei nuovi pezzi. Si può invece compiere un’altra operazione, più soggettiva; rintracciare nell’oggetto ormai degradato delle componenti estetiche che ci permettano di salvarlo dalla pattumiera. Se ci poniamo il problema in questi termini avremo sicure giustificazioni nel raccogliere e nel tenere tutto, una massa di ciarpame priva di qualsiasi valore. Una fatica inutile. Come quando mettiamo in frigorifero gli avanzi del cibo per buttarli via dopo qualche giorno.
P.S. Comunque tranquillizzatevi, la gente ha la tendenza ad abituarsi a tutto. Le soffitte non ci sono più, ormai si butta via tutto.
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Chi legge e chi no
C’è un sacco di gente che ci accusa continuamente di leggere poco. Naturalmente si tratta di un’accusa formulata sudati statistici che nella loro globalità poco ci dicono. Bisognerebbe isolare i buoni dai cattivi, scoprire perché questi ultimi non leggono, e poi trovare rimedi corretti per identificarne la tendenza negativa. Per un’analisi corretta non si dovrebbe ricorrere soltanto ai dati che gli editori ci forniscono sulle vendite del nuovo; esistono infatti un sacco di alternative per poter accedere alla carta stampata senza spendere una lira: i giornali vengono riciclati, i libri prestati, le bancarelle hanno i loro clienti affezionati. Sul nuovo ci sono altri canali che non contribuiscono ad incrementare gli indici ufficiali di lettura, negozi che ripropongono a prezzo scontatissimo le rese editoriali, spesso dovute ad eccessi/errori di tiratura in campi di interesse abbastanza specializzati, dall’arte alla scienza dalla tecnica alla poesia.
In questo caso il migliore cliente è l’Uomo dei Saldi, abituato a non farsi coinvolgere dalle correnti, dalle mode, razionale in tutte le sue scelte, parco nelle spese. Una monografia su Picasso, venduta a metà del prezzo di copertina di due o tre anni fa, costa un quarto di quanto costerebbe appena stampata. Il destinatario di un simile libro d’arte non si pone certo il problema di verificare la data di edizione o di screditare l’opera perché vecchia di un paio d’anni. Così va a finire che l’Uomo dei Saldi spenda in libri un quarto di quanto spendono gli altri oppure possiede una biblioteca quattro volte più ampia. E tutto collima perché i libri si accatastano e sottraggono spazio e tempo agli accessori della Casa Comoda che l’uomo Saggio non ama. C’è un’altra categoria di lettori che hanno trovato nel libro una stimolante compagnia, i pendolari del lavoro e dello studio. I treni sono pieni di studenti, di impiegati, di operai che quotidianamente fanno la spola tra casa e città, tutti disposti a leggere, a documentarsi, a istruirsi. Un libro riempie i tempi morti di trasferimento, il viaggio diventa talvolta un’occasione per istruirsi, per migliorare o per tenersi attaccati ad abitudini che a casa perderemmo, sopraffatti dalla tentazione di seguire, con minore fatica, i programmi del nostro tivucolor.
Col tempo si vanno differenziando sempre più due razze, l’uomo che usa il mezzo pubblico e l’uomo che guida ad ogni costo. Il treno, per esempio, permette diverse soluzioni. L’individuo contemplativo viaggia senza alcun problema: può leggere, può isolarsi, può socializzare, può continuamente decidere quale di queste situazioni scegliere a seconda del proprio stato d’animo. Può in pratica mettere in atto meccanismi di autoterapia che lo fanno tornare a casa tranquillo, avendo annullato i residui di tensione nel viaggio di ritorno, su un mezzo che ormai gli è famigliare, dove la facce sono sempre le stesse e dove può scegliere la compagnia che desidera. Il fatto di essere obbligati a far divenire tutto ciò un’abitudine non è sentito come un’imposizione, ma come un’occasione per meglio approfondire, lontani dalle tentazioni della Casa Comoda, i propri interessi. Si possono così intraprendere programmi di mesi, di anni, senza avere paura che il tempo manchi, perché il tempo c’è, quello di un’andata e di un ritorno, almeno cinque giorni alla settimana.
L’Uomo che Guida la Macchina, rispetto a suo fratello che va in treno, accumula così grossi ritardi di informazione e di cultura a meno di faticosi recuperi. E l’uomo che va in macchina ha un contatto più rarefatto con la realtà, conosce meno gente, le sue opinioni trovano raramente possibilità di confronto.
Nella stessa situazione si trovano quasi tutti gli uomini politici, in viaggio non incontrano mai la gente, si incontrano sempre fra di loro, usano un linguaggio complesso maturato durante lunghe sedute che sembrano avere come unico scopo il tentativo di comprendersi, raramente dicono quello che pensano: non è che questo li porti a mentire, semplicemente aggirano i problemi. Difficile che salgano su un autobus, dove la gente non si cimenta in dialettica ma riesce spesso a farsi capire, dove gli odori e le spinte fanno anch’esse parte di un tacito linguaggio, questa volta aderente alla realtà. La realtà sfugge loro, l’abbiamo già detto in un’altra parte di questo libro ma loro spesso non cercano nemmeno di raggiungerla. Li troviamo troppo spesso intenti a verificare la loro posizione con le indicazioni che da monte arrivano loro quotidianamente; mancano di creatività perché le regole li hanno sopraffatti; sono diventati insensibili perché devono necessariamente affrontare qualsiasi situazione in maniera teorica. I tempi sono sempre lunghi e qualsiasi situazione può essere analizzata come se si trattasse di una partita a scacchi, con un atteggiamento di studio di tutte le possibili varianti. È un atteggiamento saggio questo, dettato da una buona dose di prudenza, una virtù che non dovrebbe mai mancare quando si è costretti a decidere per gli altri. È però un peccato che questi altri, con i loro desideri e le loro tendenze, siano identificati e conosciuti solo attraverso ricerche statistiche, che i loro stimoli e i loro comportamenti siano riassunti da una percentuale in una tabella. Sarebbe molto più interessante, nel momento delle decisione, ricordarsi i volti degli altri, le loro voci, i loro pareri, i loro odori; potrebbe esserci anche la sorpresa, salendo su un treno di pendolari, quella di scoprire che c’è ancora una fascia ben precisa di persone che, malgrado le grida quotidiane di allarme lanciate dagli editori, continua a leggere, ad informarsi, a documentarsi.
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In questo caso il migliore cliente è l’Uomo dei Saldi, abituato a non farsi coinvolgere dalle correnti, dalle mode, razionale in tutte le sue scelte, parco nelle spese. Una monografia su Picasso, venduta a metà del prezzo di copertina di due o tre anni fa, costa un quarto di quanto costerebbe appena stampata. Il destinatario di un simile libro d’arte non si pone certo il problema di verificare la data di edizione o di screditare l’opera perché vecchia di un paio d’anni. Così va a finire che l’Uomo dei Saldi spenda in libri un quarto di quanto spendono gli altri oppure possiede una biblioteca quattro volte più ampia. E tutto collima perché i libri si accatastano e sottraggono spazio e tempo agli accessori della Casa Comoda che l’uomo Saggio non ama. C’è un’altra categoria di lettori che hanno trovato nel libro una stimolante compagnia, i pendolari del lavoro e dello studio. I treni sono pieni di studenti, di impiegati, di operai che quotidianamente fanno la spola tra casa e città, tutti disposti a leggere, a documentarsi, a istruirsi. Un libro riempie i tempi morti di trasferimento, il viaggio diventa talvolta un’occasione per istruirsi, per migliorare o per tenersi attaccati ad abitudini che a casa perderemmo, sopraffatti dalla tentazione di seguire, con minore fatica, i programmi del nostro tivucolor.
Col tempo si vanno differenziando sempre più due razze, l’uomo che usa il mezzo pubblico e l’uomo che guida ad ogni costo. Il treno, per esempio, permette diverse soluzioni. L’individuo contemplativo viaggia senza alcun problema: può leggere, può isolarsi, può socializzare, può continuamente decidere quale di queste situazioni scegliere a seconda del proprio stato d’animo. Può in pratica mettere in atto meccanismi di autoterapia che lo fanno tornare a casa tranquillo, avendo annullato i residui di tensione nel viaggio di ritorno, su un mezzo che ormai gli è famigliare, dove la facce sono sempre le stesse e dove può scegliere la compagnia che desidera. Il fatto di essere obbligati a far divenire tutto ciò un’abitudine non è sentito come un’imposizione, ma come un’occasione per meglio approfondire, lontani dalle tentazioni della Casa Comoda, i propri interessi. Si possono così intraprendere programmi di mesi, di anni, senza avere paura che il tempo manchi, perché il tempo c’è, quello di un’andata e di un ritorno, almeno cinque giorni alla settimana.
L’Uomo che Guida la Macchina, rispetto a suo fratello che va in treno, accumula così grossi ritardi di informazione e di cultura a meno di faticosi recuperi. E l’uomo che va in macchina ha un contatto più rarefatto con la realtà, conosce meno gente, le sue opinioni trovano raramente possibilità di confronto.
Nella stessa situazione si trovano quasi tutti gli uomini politici, in viaggio non incontrano mai la gente, si incontrano sempre fra di loro, usano un linguaggio complesso maturato durante lunghe sedute che sembrano avere come unico scopo il tentativo di comprendersi, raramente dicono quello che pensano: non è che questo li porti a mentire, semplicemente aggirano i problemi. Difficile che salgano su un autobus, dove la gente non si cimenta in dialettica ma riesce spesso a farsi capire, dove gli odori e le spinte fanno anch’esse parte di un tacito linguaggio, questa volta aderente alla realtà. La realtà sfugge loro, l’abbiamo già detto in un’altra parte di questo libro ma loro spesso non cercano nemmeno di raggiungerla. Li troviamo troppo spesso intenti a verificare la loro posizione con le indicazioni che da monte arrivano loro quotidianamente; mancano di creatività perché le regole li hanno sopraffatti; sono diventati insensibili perché devono necessariamente affrontare qualsiasi situazione in maniera teorica. I tempi sono sempre lunghi e qualsiasi situazione può essere analizzata come se si trattasse di una partita a scacchi, con un atteggiamento di studio di tutte le possibili varianti. È un atteggiamento saggio questo, dettato da una buona dose di prudenza, una virtù che non dovrebbe mai mancare quando si è costretti a decidere per gli altri. È però un peccato che questi altri, con i loro desideri e le loro tendenze, siano identificati e conosciuti solo attraverso ricerche statistiche, che i loro stimoli e i loro comportamenti siano riassunti da una percentuale in una tabella. Sarebbe molto più interessante, nel momento delle decisione, ricordarsi i volti degli altri, le loro voci, i loro pareri, i loro odori; potrebbe esserci anche la sorpresa, salendo su un treno di pendolari, quella di scoprire che c’è ancora una fascia ben precisa di persone che, malgrado le grida quotidiane di allarme lanciate dagli editori, continua a leggere, ad informarsi, a documentarsi.
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I prati di casa nostra
Non sono ancora stato nelle regioni del Sud, mi manca il tempo per visitarle come vorrei, senza programmi fatti a tavolino, che tanto poi non rispetterei. Ogni tanto andrei a cercare tracce del passato, altre volte mi limiterei a parlare con la gente, vedere le loro facce, a verificare in che cosa siamo uguali e perché siamo diversi. La natura mi attrarrebbe molto e andrei, con la scusa di aggiungere immagini al mio archivio, in giro per valli e paesi carico di attrezzature fotografiche. Laggiù la luce del giorno è sempre abbagliante, me l’hanno detto e il cielo è cobalto. I contrasti me li immagino, li ho spesso controllati in Sardegna, dove le condizioni sono più o meno le stesse. Questo viaggio non fatto è ancora una fantasia, un desiderio che presto dovrei appagare. Il sud del nostro paese è a portata di mano, basta arrivare a Roma e poi con un’ora d’aereo scarsa si è dappertutto. E se uno non vuole volare ci sono treni e navi per tutte le destinazioni; basta volere e nel Sud ci si arriva. Prima o poi vorrò. Non vorrò invece entrare in un’Agenzia di Viaggi per prenotare un viaggio di quattordici ore per uno dei tanti paradisi perduti di cui abbonda l’Asia Meridionale. Non ce la farei mai ad impiegare, con sei mesi d’anticipo, due settimane della mia vita in luoghi dal ritorno difficile. Eppure pare che la cosa funzioni, mai come adesso il viaggio organizzato rappresenta un grosso affare, agli sportelli delle Agenzie c’è addirittura la coda, spesso ci si deve accontentare, se non ci si è prenotati con larghi mesi di anticipo, di un safari in Kenia o di una veloce scappata a Londra. Anche qui non c’è esibizione, il viaggio non è più strumentalizzato ai fini di una qualificazione sociale, non è più usato come simbolo dell’appartenenza ad un preciso stato socio-economico. Di solito chi prende una decisione di questo genere tende quasi a giustificarsi presso gli amici e i conoscenti, per motivare la scelta introduce elementi razionali che la fanno apparire vantaggiosa. In effetti, seguendo questa logica, se sommassimo al costo dei pernottamenti, dei pranzi, delle escursioni la spesa a prezzi normali del volo di trasferimento, non c’è dubbio che faremmo un grosso affare. Questo tipo di considerazioni accelerano la decisione: scoprire che due settimane in Liguria ci costa poco meno che due settimane alle Maldive/prezzo base, fa certamente pendere il piatto della bilancia dalla parte dell’Oceano Indiano, soprattutto se siamo in inverno. Il fascino dell’esotico, il richiamo dei mari dalle trasparenze uniche, l’avventura di coprire distanze insolite, tutto questo contribuisce a farci dimenticare, almeno per quest’anno, l’alternativa dei nostri mari e delle nostre coste. Per il momento sono scelte individuali fatte da pochi intorno ai quali gravita però un grosso giro d’affari: cataloghi lussuosi propongono centinaia di possibilità; ciascuna offerta è spesso acquistata, venduta, riacquistata e rivenduta al consumatore finale attraverso uno strano commercio di proprietari, tour operators, dettaglianti. Ognuno ha naturalmente il suo profitto, così come lo hanno gli alberghi base e le compagnie aeree. Seguend questa logica dei profitti ci si meraviglia di come il costo all’origine sia basso, ma si accetta ugualmente tutto il meccanismo.
Dove sta dunque lo scotto reale da pagare? Una perdita dell’identità raggiunta – con un ritorno obbligato a schemi parascolastici – con la presenza di un tutore che ci impone comportamenti, programmi, orari e luoghi dai quali ci è impossibile evadere. Lo scotto principale è la perdita della libertà o per lo meno della sensazione di essere liberi di muoverci come vogliamo, esattamente come in un pranzo a menù fisso dove un prezzo più basso non ci compensa della mancanza di un piatto che desideriamo. Ho finora generalizzato le mie opinioni sul tema senza tenere conto di chi non sa come muoversi, di chi ha bisogno di qualcuno che gli dica cosa deve fare, come deve farlo, dove può andare e quando. Costoro prendono due, tre o quattro piccioni con una fava. Gli altri, quelli che amano scegliere, che non hanno paura degli imprevisti, che hanno desideri non programmabili, ebbene, costoro non hanno bisogno di mari lontani, anzi preferiscono, anche se l’erba del vicino è sempre più verde, i prati di casa nostra. E se questi prati sono nel Sud, prima o poi mi incontreranno.
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Dove sta dunque lo scotto reale da pagare? Una perdita dell’identità raggiunta – con un ritorno obbligato a schemi parascolastici – con la presenza di un tutore che ci impone comportamenti, programmi, orari e luoghi dai quali ci è impossibile evadere. Lo scotto principale è la perdita della libertà o per lo meno della sensazione di essere liberi di muoverci come vogliamo, esattamente come in un pranzo a menù fisso dove un prezzo più basso non ci compensa della mancanza di un piatto che desideriamo. Ho finora generalizzato le mie opinioni sul tema senza tenere conto di chi non sa come muoversi, di chi ha bisogno di qualcuno che gli dica cosa deve fare, come deve farlo, dove può andare e quando. Costoro prendono due, tre o quattro piccioni con una fava. Gli altri, quelli che amano scegliere, che non hanno paura degli imprevisti, che hanno desideri non programmabili, ebbene, costoro non hanno bisogno di mari lontani, anzi preferiscono, anche se l’erba del vicino è sempre più verde, i prati di casa nostra. E se questi prati sono nel Sud, prima o poi mi incontreranno.
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Il futuro assicurato
Ci sono situazioni che ormai ci lascerebbero impotenti, incapaci di reagire. Ci obbligherebbero a fare lavorare in fretta il cervello per trovare soluzioni immediate. La sopravvivenzaavrebbe priorità. Mangiare, un fatto che l’uomo nonha mai potuto sottovalutare, divenuto nelle società industrializzateuna normale formalità, diventerebbe imperativod’obbligo in situazioni ben diverse da quella attuale, duranteuna guerra, per esempio. Una guerra impossibile, insospettabile, imprevedibile, non tanto nella realtà, quanto nella testa degli individui che ne rimuovono costantemente lo spettro. La possibilità di un tale evento ci costringerebbe a modificare abitudini, a prendere in esame nuovi schemi dicomportamento, a pensare più al futuro che al presente. Il presente assorbe infatti gran parte delle energie della nostra gente. Il domani verrà e difficilmente lo potremo modificare e l’unica alternativa d’oggi all’edonismo è l’ignavia.
Il risparmio, per esempio, che fine ha fatto? Dove sono finiti tutti quei soldini che ogni famiglia previdente sapeva di dover mettere da parte ogni mese, ogni anno, per ogni evenienza, per superare momenti difficili, per avvicinarsi al capitale necessario, sufficiente garanzia per una vita tranquilla? Sono cambiate le cose. Si è deciso all’unanimità che il problema non esiste più, che non c’è più necessità di risparmiare, che non ci si deve più preoccupare per il futuro perché il futuro è assicurato.
Abbasso le formiche, viva le cicale! Cosa succede quando la cicala comincia ad avere degli scrupoli? C’è rimedio a tutto. Basta che uno investa – lapalissiano – il denaro che ancora non ha. Dopo un certo numero di anni si troverà con una piccola cifra, versata con pazienza e costanza, ricco in valuta attualizzata. In ogni caso si tratta di risparmio, anche se forzato. Un risparmio nato più dalla credibilità delle banche e degli imprenditori finanziari che da un modello tradizionale di previdenza. Il meccanismo – si chiami fondo di investimento o con qualsiasi altro nome – è attuale, nuovo, accontenta chi è propenso ad accettarlo: niente più code agli sportelli delle banche, niente più libretti al portatore, niente più buoni postali. Aderire ad una proposta nuova dà sufficienti gratificazioni, ci dà la misura della nostra evoluzione. Sarà senz’altro avvenuto altre volte in passato, ma ora la situazione sta superando il livello di guardia. Il desiderio di possedere si sta radicando sempre di più. C’è chi possiede e chi non possiede nulla. Chi possiede cerca di incrementare il posseduto, cosa abbastanza facile per chi conosce le regole, che poi non sono tante. Chi non possiede ed è animato da un terribile desiderio di cambiare condizione prima o poi ce la farà. Qui non ci sono regole, l’improvvisazione regna incontrastata, l’unica necessità non perdere mai tempo, cogliere al volo le occasioni, di qualsiasi natura siano, purché vantaggiose. Alla fine quello più bravo, quello più fortunato, possiederà di più, ma anche gli altri la loro fettina di beni se la saranno costruita.
Superata la fase iniziale comincia qualche piccola regola: vendere tutto se l’offerta è superiore al valore reale, non legarsi affettivamente a ciò che si possiede, non valutare i vantaggi soggettivi di una situazione. Vendere è l’imperativo d’obbligo se c’è qualcos’altro da acquistare vantaggiosamente. E poi continuare sulla stessa strada. Durante questi passaggi non è necessari divenire, di volta in volta, un professionista. Se si acquista un bar, un ristorante, un albergo, è sufficiente rimanere quello che si era, con le stesse carenze, gli stessi difetti, con gli stessi comportamenti, tanto, il giorno dopo, si rivende tutto al miglior offerente. Sarebbe tempo sprecato documentarsi, imparare, evolversi, quando la via scelta porta ad altre soluzioni, ad altri mestieri. Il possesso continua a rimanere un fine, per costoro, non un mezzo e il risultato è facilmente prevedibile: chi comincia a possedere, possiederà sempre di più. Questo meccanismo è assimilabile ad un vizio, irrimediabile come tutti i vizi. Quest’uomo in qualche recesso del suo cervello intuisce prima o poi che, prima o poi, dovrà andarsene da questo mondo. Nello stesso istante, se la natura non ha già provveduto da sola, si preoccuperà di mettere al mondo due o tre discendenti che possano continuare la sua opera, proseguendo nell’accumulo. Sarà loro facile avendo un cotal padre per modello. Arricchiranno, col greve fardello di tutte le carenze che avranno ereditato durante la loro crescita. Educazione, cultura, comportamento subiranno grosse limitazioni, ma il guaio, quello grosso, lo subiremo noi, tutti quelli che, per decisione chiara, per impostazione familiare, per l’insegnamento ricevuto, hanno scelto una via diversa. Una via diversa per noi e per i nostri figli, per tutti coloro che avranno ache fare con questa nuova generazione del possesso e che saranno costretti a subirne, ora l’ignoranza, ora l’arroganza, come minimo l’impreparazione. Quotidianamente.
I politici hanno esaminato il fenomeno delle classi emergenti, hanno cercato di studiarne i progressi, le tendenze, i comportamenti statistici, li hanno divisi in gruppi e sottogruppi perché sia più facile identificarli e lottizzarli. Non si sono certo preoccupati di analizzare i grafici di mutazione degli schemi, non si sono accorti che esponenziale ed esplosivo hanno la stessa radice e che c’è anche la possibilità che questo continuo tentativo di emergere non faccia altro c imporre degli schemi di una lotta senza quartiere per impor-re soluzioni vantaggiose di tipo individuale che con il bene della società nulla hanno a che vedere. Quasi un paradosso: il singolo migliora (?) e la società si degrada. E tutti dicono che non succede mai niente.
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Il risparmio, per esempio, che fine ha fatto? Dove sono finiti tutti quei soldini che ogni famiglia previdente sapeva di dover mettere da parte ogni mese, ogni anno, per ogni evenienza, per superare momenti difficili, per avvicinarsi al capitale necessario, sufficiente garanzia per una vita tranquilla? Sono cambiate le cose. Si è deciso all’unanimità che il problema non esiste più, che non c’è più necessità di risparmiare, che non ci si deve più preoccupare per il futuro perché il futuro è assicurato.
Abbasso le formiche, viva le cicale! Cosa succede quando la cicala comincia ad avere degli scrupoli? C’è rimedio a tutto. Basta che uno investa – lapalissiano – il denaro che ancora non ha. Dopo un certo numero di anni si troverà con una piccola cifra, versata con pazienza e costanza, ricco in valuta attualizzata. In ogni caso si tratta di risparmio, anche se forzato. Un risparmio nato più dalla credibilità delle banche e degli imprenditori finanziari che da un modello tradizionale di previdenza. Il meccanismo – si chiami fondo di investimento o con qualsiasi altro nome – è attuale, nuovo, accontenta chi è propenso ad accettarlo: niente più code agli sportelli delle banche, niente più libretti al portatore, niente più buoni postali. Aderire ad una proposta nuova dà sufficienti gratificazioni, ci dà la misura della nostra evoluzione. Sarà senz’altro avvenuto altre volte in passato, ma ora la situazione sta superando il livello di guardia. Il desiderio di possedere si sta radicando sempre di più. C’è chi possiede e chi non possiede nulla. Chi possiede cerca di incrementare il posseduto, cosa abbastanza facile per chi conosce le regole, che poi non sono tante. Chi non possiede ed è animato da un terribile desiderio di cambiare condizione prima o poi ce la farà. Qui non ci sono regole, l’improvvisazione regna incontrastata, l’unica necessità non perdere mai tempo, cogliere al volo le occasioni, di qualsiasi natura siano, purché vantaggiose. Alla fine quello più bravo, quello più fortunato, possiederà di più, ma anche gli altri la loro fettina di beni se la saranno costruita.
Superata la fase iniziale comincia qualche piccola regola: vendere tutto se l’offerta è superiore al valore reale, non legarsi affettivamente a ciò che si possiede, non valutare i vantaggi soggettivi di una situazione. Vendere è l’imperativo d’obbligo se c’è qualcos’altro da acquistare vantaggiosamente. E poi continuare sulla stessa strada. Durante questi passaggi non è necessari divenire, di volta in volta, un professionista. Se si acquista un bar, un ristorante, un albergo, è sufficiente rimanere quello che si era, con le stesse carenze, gli stessi difetti, con gli stessi comportamenti, tanto, il giorno dopo, si rivende tutto al miglior offerente. Sarebbe tempo sprecato documentarsi, imparare, evolversi, quando la via scelta porta ad altre soluzioni, ad altri mestieri. Il possesso continua a rimanere un fine, per costoro, non un mezzo e il risultato è facilmente prevedibile: chi comincia a possedere, possiederà sempre di più. Questo meccanismo è assimilabile ad un vizio, irrimediabile come tutti i vizi. Quest’uomo in qualche recesso del suo cervello intuisce prima o poi che, prima o poi, dovrà andarsene da questo mondo. Nello stesso istante, se la natura non ha già provveduto da sola, si preoccuperà di mettere al mondo due o tre discendenti che possano continuare la sua opera, proseguendo nell’accumulo. Sarà loro facile avendo un cotal padre per modello. Arricchiranno, col greve fardello di tutte le carenze che avranno ereditato durante la loro crescita. Educazione, cultura, comportamento subiranno grosse limitazioni, ma il guaio, quello grosso, lo subiremo noi, tutti quelli che, per decisione chiara, per impostazione familiare, per l’insegnamento ricevuto, hanno scelto una via diversa. Una via diversa per noi e per i nostri figli, per tutti coloro che avranno ache fare con questa nuova generazione del possesso e che saranno costretti a subirne, ora l’ignoranza, ora l’arroganza, come minimo l’impreparazione. Quotidianamente.
I politici hanno esaminato il fenomeno delle classi emergenti, hanno cercato di studiarne i progressi, le tendenze, i comportamenti statistici, li hanno divisi in gruppi e sottogruppi perché sia più facile identificarli e lottizzarli. Non si sono certo preoccupati di analizzare i grafici di mutazione degli schemi, non si sono accorti che esponenziale ed esplosivo hanno la stessa radice e che c’è anche la possibilità che questo continuo tentativo di emergere non faccia altro c imporre degli schemi di una lotta senza quartiere per impor-re soluzioni vantaggiose di tipo individuale che con il bene della società nulla hanno a che vedere. Quasi un paradosso: il singolo migliora (?) e la società si degrada. E tutti dicono che non succede mai niente.
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L'uomo senza fantasia
Un trattato sull’avaro non lo ha mai scritto nessuno. Molière e Goldoni hanno lavorato sul tema, Gilberto Govi ha divertito tutta Italia con le sue interpretazioni dell’avarissimo Giobatta Parodi, l’Uncle Scroogie di Dickens ha fornito a Disney il nome per il taccagno più famoso del mondo, Paperon de’ Paperoni. Paul Getty, suo fratello di sangue, non ha scucito un dollaro nemmeno davanti all’orecchio reciso del nipote rapito. Alberto Sordi è citato spesso come campione italiano di questo sport, catalogato tra i vizi capitali. L’avaro non è molto amato. Di solito perché ha di più di tutti quelli che lo circondano, gente che spesso lo invidia (uno a uno in quanto a peccati della stessa famiglia!) e vorrebbe possedere almeno quanto lui. In queste situazioni non c’è né posto né tempo per l’amore. Ma anche quei pochi disponibili, sia per abitudine che per temperamento, a voler bene al prossimo, se possono amano qualcun altro. L’avaro li allontana da sè, per essere amato sarebbe costretto, in una maniera o nell’altra, a ricambiare e questo lo terrorizza. Ci mancherebbe davvero anche questo, con tutti i problemi che ha.
L’avaro è un uomo che soffre. Non c’è un attimo di tranquillità, in qualsiasi momento tutto quello che ha accumulato, tutte le sue sicurezze, potrebbe essere messo in pericolo. La svalutazione, che minaccia il suo denaro, lo obbliga ad immobilizzarlo. Aumenti rapidissimi di valore, anziché renderlo felice, lo preoccupano perché lo smobilizzo del bene si fa ovviamente più difficile e, se anche si effettua, subentra il problema di un nuovo immobilizzo. Si fa esperto di alchimie finanziarie e ogni giorno si rafforza la convinzione che la sua strada è quella giusta. Tutto quello che toglie di giorno in giorno alla famiglia, sa che le verrà restituito, quando Dio vorrà, centuplicato, e tutto questo funzionerebbe, secondo logica (?), se non fosse che un personaggio così ha solitamente una vita media di 150 anni e i suoi programmi di rimborso non funzionano più, per lo meno a favore di chi ne avrebbe diritto.
L’avaro soffre. La gente non lo capisce, lo confonde con un ladro, lo addita come un lebbroso. Ma la gente, si sa, sbaglia. L’avaro è un uomo onesto, lavoratore, previdente, si può dire che abbia un sacco di pregi ormai difficili da rintracciarsi. Certo, non sa cosa vuol dire bere un gran vino, che sensazione dia sulle labbra un bicchiere di cristallo, come sia fatto un vagone ristorante e come ci si comporti in un grande albergo. I taxi e la prima classe gli sono sconosciuti, il film lo vede a casa, alla televisione, le variazioni della moda lo toccano marginalmente e la sua auto è un peccato venderla perché ha il motore praticamente nuovo.
Un uomo così non è certamente un ladro, anche se possiede più degli altri. È semplicemente un uomo che consuma poco, il minimo indispensabile, un uomo che ama il denaro, che preferisce accumularlo anziché dedicarsi allo sperpero. Ma cosa ha quest’ultimo – o meglio cosa non ha quest’uomo –, in che cosa si differenzia dagli altri? Lo sappiamo benissimo. La fantasia. Non ne ha, nemmeno un briciolo, né da vendere, né da acquistare. L’uomo normale, il non avaro, vive di fantasia, acquista fantasie. Forse è solo questa la differenza. Lo sanno bene i venditori che spesso non fanno altro che assecondare le fantasie dei loro clienti. Si trovano di fronte a gente preparata a spendere, bastano pochi elementi oggettivi sui quali trattare l’acquisto e se le associazioni sono positive, se i vantaggi d’ordine psicologico sono evidenti, se la conclusione dell’affare è gratificante, ebbene, la cosa si conclude. Una casa, un’automobile, una vacanza, un oggetto di pregio di solito si acquistano e si vendono così. Di solito. Non certo ad un avaro che solitamente acquista case o cose per quello che sono, per la loro funzionalità, non certo per quello che potrebbero essere o potrebbero dare. È così che, solo perché l’avaro difetta di fantasia, lo si deride, lo si emargina, lo si accusa di colpe tremende solo perché non sente la seduzione del superfluo.
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L’avaro è un uomo che soffre. Non c’è un attimo di tranquillità, in qualsiasi momento tutto quello che ha accumulato, tutte le sue sicurezze, potrebbe essere messo in pericolo. La svalutazione, che minaccia il suo denaro, lo obbliga ad immobilizzarlo. Aumenti rapidissimi di valore, anziché renderlo felice, lo preoccupano perché lo smobilizzo del bene si fa ovviamente più difficile e, se anche si effettua, subentra il problema di un nuovo immobilizzo. Si fa esperto di alchimie finanziarie e ogni giorno si rafforza la convinzione che la sua strada è quella giusta. Tutto quello che toglie di giorno in giorno alla famiglia, sa che le verrà restituito, quando Dio vorrà, centuplicato, e tutto questo funzionerebbe, secondo logica (?), se non fosse che un personaggio così ha solitamente una vita media di 150 anni e i suoi programmi di rimborso non funzionano più, per lo meno a favore di chi ne avrebbe diritto.
L’avaro soffre. La gente non lo capisce, lo confonde con un ladro, lo addita come un lebbroso. Ma la gente, si sa, sbaglia. L’avaro è un uomo onesto, lavoratore, previdente, si può dire che abbia un sacco di pregi ormai difficili da rintracciarsi. Certo, non sa cosa vuol dire bere un gran vino, che sensazione dia sulle labbra un bicchiere di cristallo, come sia fatto un vagone ristorante e come ci si comporti in un grande albergo. I taxi e la prima classe gli sono sconosciuti, il film lo vede a casa, alla televisione, le variazioni della moda lo toccano marginalmente e la sua auto è un peccato venderla perché ha il motore praticamente nuovo.
Un uomo così non è certamente un ladro, anche se possiede più degli altri. È semplicemente un uomo che consuma poco, il minimo indispensabile, un uomo che ama il denaro, che preferisce accumularlo anziché dedicarsi allo sperpero. Ma cosa ha quest’ultimo – o meglio cosa non ha quest’uomo –, in che cosa si differenzia dagli altri? Lo sappiamo benissimo. La fantasia. Non ne ha, nemmeno un briciolo, né da vendere, né da acquistare. L’uomo normale, il non avaro, vive di fantasia, acquista fantasie. Forse è solo questa la differenza. Lo sanno bene i venditori che spesso non fanno altro che assecondare le fantasie dei loro clienti. Si trovano di fronte a gente preparata a spendere, bastano pochi elementi oggettivi sui quali trattare l’acquisto e se le associazioni sono positive, se i vantaggi d’ordine psicologico sono evidenti, se la conclusione dell’affare è gratificante, ebbene, la cosa si conclude. Una casa, un’automobile, una vacanza, un oggetto di pregio di solito si acquistano e si vendono così. Di solito. Non certo ad un avaro che solitamente acquista case o cose per quello che sono, per la loro funzionalità, non certo per quello che potrebbero essere o potrebbero dare. È così che, solo perché l’avaro difetta di fantasia, lo si deride, lo si emargina, lo si accusa di colpe tremende solo perché non sente la seduzione del superfluo.
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E il cantante inforcò i pattini
L’uomo d’oggi ha bisogno di un sacco di cose – l’abbiamo già detto – e questo gli crea una grossa confusione, grossa al punto di non sapere nemmeno più riconoscere quelle poche assolutamente necessarie. Ha bisogno di compensazioni per la fatica quotidiana, per le vessazioni che riceve e per i compromessi che accetta. Ha bisogno di rimuovere quasi tutto quello che ogni giorno gli succede o che accade intorno a lui. E allora si agita, alla fine del lavoro inizia un’altra sorta di lavoro, che lo assorbe e lo impegna al di là dell’immaginabile. Già lo scegliere il nuovo impegno richiede studio, previsioni, attenzione, intuito, documentazione. Occorre infatti analizzare tutte le possibilità prima di decidersi: rischi non se ne possono correre, ne va della propria immagine e della propria dignità. Il discorso da intraprendere deve avere il carattere di attualità, non deve distaccarsi molto dall’attività primaria, la sfera sociale d’azione deve rimanere la stessa o per lo meno dello stesso tipo, per evitare non solo di qualificarsi attraverso i propri sforzi, ma addirittura di degradarsi. Nell’attività secondaria non è necessario essere dei geni, basta una dose normale di preparazione e buon senso per meritare già degli applausi, dovuti di solito più alla sorpresa che si genera piuttosto che ad una reale capacità di svolgere la doppia attività.
È un po’ come quando un attore si mette a ballare o un cantante inforca i pattini. Per pigrizia di solito crediamo che un attore o un cantante non sappiano o non possano fare altro che recitare o cantare e ci stupiamo moltissimo se poi se la cavano bene nel fare dell’altro. Li riqualifichiamo immediatamente, se per caso prima non godevano della nostra stima.
La seconda attività nasce all’interno delle ambizioni insoddisfatte, non realizzate. La potenzialità dell’individuo ha bisogno di sfoghi, prima che l’attività primaria, dettata di solito dalla necessità, per lo meno all’inizio, soffochi ogni aspirazione. Il piacere della scelta aumenta la disponibilità ad occuparsi di questi nuovi interessi. Interessi, perché alla base ci deve essere un obiettivo speculativo, anche se poi questa altro non è se non una giustificazione, non solo per gli altri ma anche per se stessi. Mai come ora l’uomo, anziché dipingere nel tempo libero, suonare, occuparsi di francobolli o di farfalle, si è messo in testa di produrre del denaro per piacere personale. Se ama la fotografia, anziché mettere in piedi una camera oscura in cantina, si mette a collezionare macchine antiche, un settore che promette molto. Se è un appassionato dell’automobile va alla ricerca di modelli rari e piano piano li rimette in sesto con estrema efficienza. Alla base ci deve essere la convinzione di fare degli affari, ogni spesa va considerata un investimento. L’antico va forte, mobili, libri, orologi, tappeti, tutto va bene perché la richiesta c’è sempre e l’offerta col tempo si estingue. Basta spazzolare di volta in volta i settori che diventano di moda che l’affare è assicurato.
Questi acquisti sembrano quelli che una volta venivano fatti dal collezionista, il meccanismo apparente dell’acquisizione del bene è simile, ma mentre nell’un caso è il desiderio del possesso, nell’altro è la dimostrazione palese del proprio acume e della propria esperienza specifica. Di economia e di finanza se ne parla tutti i giorni ed ecco questa fascia di doppio-lavoristi che si butta sulla borsa, sulle valute, sui metalli industriali. La mediazione è un altro canale di produzione di denaro che attrae questi signori, creare contatti tra chi ha bisogno di un bene o di un servizio e chi lo produce. E se ci sono arabi o giapponesi, aperture di credito, necessità di un paio di viaggi interlocutori, il gioco si presentaancora più interessante.
Ma il fisco ha imposto regole severe e chi pensa di produrre del denaro si informa, si documenta, trascorre ore dai notai, da avvocati, da commercialisti. Mai prima d’ora sono nate tante società, che permettono di agire senza mettere allo scoperto il proprio nome, cosa che potrebbe essere in contrasto con il lavoro mattutino. Così tutti oggi sanno dell’esseerreelle, della esseenneci e della sas, cosa conviene fare per contenere le tasse entro limiti accettabili, come trasferire alla propria società una parte dei propri consumi senza compiere azioni illegali. Per muoversi con sicurezza i questo nuovo mondo c’è bisogno di una guida che giunga là dove il poco tempo a disposizione di questi nuovi affaristi non arriverebbe, che indichi loro quali sono le mode degli uomini e tra queste quali saranno le più redditizie, quelle destinate ad avere vita più lunga.
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È un po’ come quando un attore si mette a ballare o un cantante inforca i pattini. Per pigrizia di solito crediamo che un attore o un cantante non sappiano o non possano fare altro che recitare o cantare e ci stupiamo moltissimo se poi se la cavano bene nel fare dell’altro. Li riqualifichiamo immediatamente, se per caso prima non godevano della nostra stima.
La seconda attività nasce all’interno delle ambizioni insoddisfatte, non realizzate. La potenzialità dell’individuo ha bisogno di sfoghi, prima che l’attività primaria, dettata di solito dalla necessità, per lo meno all’inizio, soffochi ogni aspirazione. Il piacere della scelta aumenta la disponibilità ad occuparsi di questi nuovi interessi. Interessi, perché alla base ci deve essere un obiettivo speculativo, anche se poi questa altro non è se non una giustificazione, non solo per gli altri ma anche per se stessi. Mai come ora l’uomo, anziché dipingere nel tempo libero, suonare, occuparsi di francobolli o di farfalle, si è messo in testa di produrre del denaro per piacere personale. Se ama la fotografia, anziché mettere in piedi una camera oscura in cantina, si mette a collezionare macchine antiche, un settore che promette molto. Se è un appassionato dell’automobile va alla ricerca di modelli rari e piano piano li rimette in sesto con estrema efficienza. Alla base ci deve essere la convinzione di fare degli affari, ogni spesa va considerata un investimento. L’antico va forte, mobili, libri, orologi, tappeti, tutto va bene perché la richiesta c’è sempre e l’offerta col tempo si estingue. Basta spazzolare di volta in volta i settori che diventano di moda che l’affare è assicurato.
Questi acquisti sembrano quelli che una volta venivano fatti dal collezionista, il meccanismo apparente dell’acquisizione del bene è simile, ma mentre nell’un caso è il desiderio del possesso, nell’altro è la dimostrazione palese del proprio acume e della propria esperienza specifica. Di economia e di finanza se ne parla tutti i giorni ed ecco questa fascia di doppio-lavoristi che si butta sulla borsa, sulle valute, sui metalli industriali. La mediazione è un altro canale di produzione di denaro che attrae questi signori, creare contatti tra chi ha bisogno di un bene o di un servizio e chi lo produce. E se ci sono arabi o giapponesi, aperture di credito, necessità di un paio di viaggi interlocutori, il gioco si presentaancora più interessante.
Ma il fisco ha imposto regole severe e chi pensa di produrre del denaro si informa, si documenta, trascorre ore dai notai, da avvocati, da commercialisti. Mai prima d’ora sono nate tante società, che permettono di agire senza mettere allo scoperto il proprio nome, cosa che potrebbe essere in contrasto con il lavoro mattutino. Così tutti oggi sanno dell’esseerreelle, della esseenneci e della sas, cosa conviene fare per contenere le tasse entro limiti accettabili, come trasferire alla propria società una parte dei propri consumi senza compiere azioni illegali. Per muoversi con sicurezza i questo nuovo mondo c’è bisogno di una guida che giunga là dove il poco tempo a disposizione di questi nuovi affaristi non arriverebbe, che indichi loro quali sono le mode degli uomini e tra queste quali saranno le più redditizie, quelle destinate ad avere vita più lunga.
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La cravatta rosa
Va prendendo piede un linguaggio concreto. Basta dire merda una volta che la seconda diventa più facile. Si tratta poi di ripetere merda in tutte le situazioni dove non c’è problema di vergogna o di forma per essere in grado, senza vergogna, di ridire merda, al punto giusto, anche quando ci sia problema di forma. È un fatto di classe, c’è chi può permetterselo e chi no, come mangiare le patatine fritte con le mani o con la forchetta. E chi ha classe può dire merda senza essere volgare e finalmente la frase può essere più concisa, più densa di contenuto, più significante come direbbero coloro che non pronuncerebbero mai la parola incriminata. Quando si utilizza un simile linguaggio si può essere superati in concisione solo da pochi linguisti attenti e preparati. In ogni caso non si tratta di apologia di linguaggio da trivio, tutt’altro. Io, per esempio, pur usando talvolta, di frequente direi, vere e proprie parolacce per rafforzare i miei discorsi, rispetto la forma quanto un gentiluomo dell’ottocento e rimpiango spesso di non avere occasioni sufficienti in cui sfoggiare questa mia qualità. Anche in queste situazioni però non riesco a non tentare la via della provocazione, soprattutto quando il discorso si allontana dagli schemi della vuota cortesia per finire su argomenti che mi coinvolgono direttamente, nei momenti in cui entra in ballo la necessità di esporre opinioni decise, quando sono obbligato ad esprimere pareri o giudizi privi di diplomazia, quando è necessario stare da una parte o dall’altra, quando i miei interlocutori si devono accorgere senza ombra di dubbio che le mie posizioni sono nette. Ed è proprio l’aumento di attenzione dovuto ad un linguaggio insolito che rende il discorso più secco, più incisivo.
La comunicazione diventa più efficace ed è così che la forma influenza moltissimo la partecipazione, è così che il contenuto acquista forza presso chi era distratto. Io mi rado, porto una camicia pulita, ci aggiungo una cravatta che spero non stoni col resto dell’abbigliamento, scelgo anche il colore dei calzini, mi lucido le scarpe. Aggiungo al tutto un orologio d’acciaio, una cintura di vitello, una penna decente e sono pronto ad incontrare il mio prossimo dimostrando con tutta questa serie di codici tradizionali non aggressivi la mia disponibilità a trattare. I miei codici usuali vengono riconosciuti da una fascia molto ampia di potenziali interlocutori, l’inizio del dialogo è automatico, le barriere e le prevenzioni di carattere formale sono praticamente inesistenti. Adesso introduciamo delle varianti minime su un abito blu, normalissima divisa da impiegato: indossiamo una camicia celeste, normalissima anche per un tranviere, poi passiamo alla cravatta, necessario complemento, e scegliamola di un bel colore rosa shocking. Se il nostro scopo era quello di creare una situazione d’attesa, di leggero sospetto, di curiosità, in tal caso ce l’abbiamo fatta. Però nello stesso tempo abbiamo limitato, sin dall’inizio, il potenziale di comunicazione.
Sostituiamo ora l’orologio d’acciaio con uno di quelli superpubblicizzati – extra piatti, con un sacco di piccole viti inutili – aggiungiamo uno spruzzo di profumo, blocchiamola cravatta con un piccolo gioiello luccicante e via così con cintura di lucertola, calzini in tinta, scarpe con vezzo. A questo punto il signorino è pronto. Si guarda allo specchio, si passa le dita fra i capelli scalati con cura ed è pronto a parlare. Con se stesso, naturalmente. Gli ornamenti che ha scelto palesano lasua posizione nei confronti del mondo esterno, degli altri, del suo prossimo. Il suo linguaggio sarà più attento, più morbido, la forma tenderà inevitabilmente a prendere il sopravvento sul contenuto oppure il contenuto dovrà avere davvero grossa importanza per riuscire a sopravvivere. Un individuo così, forse disponibile, crea prevenzione, lo si guarda come diverso, ci obbliga a tattiche d’avvicinamento più elaborate, non spontanee, in qualche caso ci rende non disponibili nei suoi confronti. Spesso per pigrizia, perché non ce la sentiamo di affrontare le fatiche inevitabili della fase di approccio, perché non siamo certi che le nostre fatiche vengano poi ricompensate.
Come esempio opposto possiamo citare una serie di particolari/barriera: barba lunga, unghie sporche, abbigliamento trascurato. Anche qui si tratta di un diverso, di uno che non rispetta le regole, da lui ci sentiamo violentati. Il fenomeno di rigetto si amplifica, la nostra disponibilitàdiminuisce ulteriormente. In altre parole diventiamo giudici. E fin qui tutto bene. Nell’area del nostro territorio possiamo permetterci di giudicare. Inevitabilmente però i nostri criteri di giudizio nei confronti del signorino e del barbone non saranno uniformi: saremo senz’altro meno critici nei confronti di quello che mostrerà segni di riconoscimento più vicini a quelli che noi utilizziamo normalmente.
E ora facciamo compiere dei piccoli movimenti ai nostri due manichini, seguiamone la mimica, diamo loro delle posate e vediamo come le impugnano, facciamoli sedere ad un tavolo e vediamo a posizione delle braccia, aspettiamo che bevano e controlliamo come lo fanno, passiamo in poltrona e osserviamo la posizione del busto e delle gambe. Non facciamoli ancora parlare. Siamo già in grado di modificare il nostro giudizio preconcetto sulle nostre due cavie: abbiamo infatti aggiunto elementi di comportamento che meglio ci aiutano a definire l’individuo e il giudizio diventa più oggettivo. Diamo loro la parola, la comunicazione diventa verbale: in pochi minuti tutti i rispettivi limiti culturali saranno allo scoperto, ci sarà un diverso uso delle parole, un vocabolario personale di diversa ampiezza, una più forte o più debole cadenza dialettale, una maggiore o minore abitudine al dialogo, alla conversazione. Tutto questo darà vantaggi momentanei all’uno o all’altro ma non ci darà un grosso aiuto al fine di un giudizio imparziale perché avremo sempre il dubbio che una cravatta rosa sia decisamente meglio di una mano dall unghie sporche. Ed ecco la fase della comunicazione non verbale. Non staremo attenti a tutto – perchè il microscopio non ci fa vedere l’elefante – ma ci occuperemo di una serie di dettagli non trascurabili: la disponibilità dell’uno ad ascoltare l’altro, la sua capacità di intervenire senza brusche interruzioni, il timbro della voce a seconda dell’argomento e dell’occasione, la capacità mimica di segnalare all’altro di comprendere le successive fasi del discorso. I ruoli si alterneranno e ci daranno la possibilità di confronto e finalmente saremo in grado di risolvere il nostro dubbio e di emettere il nostro verdetto. Proprio nello stesso momento i nostri due amici e va a finire sempre così – si alzeranno e se ne andranno via insieme, dopo averci spiegato che l’uno era daltonico e il secondo era finito fuori strada con la macchina. In ogni caso, volontari o involontari che siano, i codici di prima comunicazione possono essere positivi o negativi ai fini dell’approccio. Quanto più importante è avvicinarsi al prossimo tanta maggiore attenzione va destinata all’intero problema. Poi, con estrema libertà, ciascuno di noi può vestirsi interamente di rosa o imbrattarsi le mani di merda.
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La comunicazione diventa più efficace ed è così che la forma influenza moltissimo la partecipazione, è così che il contenuto acquista forza presso chi era distratto. Io mi rado, porto una camicia pulita, ci aggiungo una cravatta che spero non stoni col resto dell’abbigliamento, scelgo anche il colore dei calzini, mi lucido le scarpe. Aggiungo al tutto un orologio d’acciaio, una cintura di vitello, una penna decente e sono pronto ad incontrare il mio prossimo dimostrando con tutta questa serie di codici tradizionali non aggressivi la mia disponibilità a trattare. I miei codici usuali vengono riconosciuti da una fascia molto ampia di potenziali interlocutori, l’inizio del dialogo è automatico, le barriere e le prevenzioni di carattere formale sono praticamente inesistenti. Adesso introduciamo delle varianti minime su un abito blu, normalissima divisa da impiegato: indossiamo una camicia celeste, normalissima anche per un tranviere, poi passiamo alla cravatta, necessario complemento, e scegliamola di un bel colore rosa shocking. Se il nostro scopo era quello di creare una situazione d’attesa, di leggero sospetto, di curiosità, in tal caso ce l’abbiamo fatta. Però nello stesso tempo abbiamo limitato, sin dall’inizio, il potenziale di comunicazione.
Sostituiamo ora l’orologio d’acciaio con uno di quelli superpubblicizzati – extra piatti, con un sacco di piccole viti inutili – aggiungiamo uno spruzzo di profumo, blocchiamola cravatta con un piccolo gioiello luccicante e via così con cintura di lucertola, calzini in tinta, scarpe con vezzo. A questo punto il signorino è pronto. Si guarda allo specchio, si passa le dita fra i capelli scalati con cura ed è pronto a parlare. Con se stesso, naturalmente. Gli ornamenti che ha scelto palesano lasua posizione nei confronti del mondo esterno, degli altri, del suo prossimo. Il suo linguaggio sarà più attento, più morbido, la forma tenderà inevitabilmente a prendere il sopravvento sul contenuto oppure il contenuto dovrà avere davvero grossa importanza per riuscire a sopravvivere. Un individuo così, forse disponibile, crea prevenzione, lo si guarda come diverso, ci obbliga a tattiche d’avvicinamento più elaborate, non spontanee, in qualche caso ci rende non disponibili nei suoi confronti. Spesso per pigrizia, perché non ce la sentiamo di affrontare le fatiche inevitabili della fase di approccio, perché non siamo certi che le nostre fatiche vengano poi ricompensate.
Come esempio opposto possiamo citare una serie di particolari/barriera: barba lunga, unghie sporche, abbigliamento trascurato. Anche qui si tratta di un diverso, di uno che non rispetta le regole, da lui ci sentiamo violentati. Il fenomeno di rigetto si amplifica, la nostra disponibilitàdiminuisce ulteriormente. In altre parole diventiamo giudici. E fin qui tutto bene. Nell’area del nostro territorio possiamo permetterci di giudicare. Inevitabilmente però i nostri criteri di giudizio nei confronti del signorino e del barbone non saranno uniformi: saremo senz’altro meno critici nei confronti di quello che mostrerà segni di riconoscimento più vicini a quelli che noi utilizziamo normalmente.
E ora facciamo compiere dei piccoli movimenti ai nostri due manichini, seguiamone la mimica, diamo loro delle posate e vediamo come le impugnano, facciamoli sedere ad un tavolo e vediamo a posizione delle braccia, aspettiamo che bevano e controlliamo come lo fanno, passiamo in poltrona e osserviamo la posizione del busto e delle gambe. Non facciamoli ancora parlare. Siamo già in grado di modificare il nostro giudizio preconcetto sulle nostre due cavie: abbiamo infatti aggiunto elementi di comportamento che meglio ci aiutano a definire l’individuo e il giudizio diventa più oggettivo. Diamo loro la parola, la comunicazione diventa verbale: in pochi minuti tutti i rispettivi limiti culturali saranno allo scoperto, ci sarà un diverso uso delle parole, un vocabolario personale di diversa ampiezza, una più forte o più debole cadenza dialettale, una maggiore o minore abitudine al dialogo, alla conversazione. Tutto questo darà vantaggi momentanei all’uno o all’altro ma non ci darà un grosso aiuto al fine di un giudizio imparziale perché avremo sempre il dubbio che una cravatta rosa sia decisamente meglio di una mano dall unghie sporche. Ed ecco la fase della comunicazione non verbale. Non staremo attenti a tutto – perchè il microscopio non ci fa vedere l’elefante – ma ci occuperemo di una serie di dettagli non trascurabili: la disponibilità dell’uno ad ascoltare l’altro, la sua capacità di intervenire senza brusche interruzioni, il timbro della voce a seconda dell’argomento e dell’occasione, la capacità mimica di segnalare all’altro di comprendere le successive fasi del discorso. I ruoli si alterneranno e ci daranno la possibilità di confronto e finalmente saremo in grado di risolvere il nostro dubbio e di emettere il nostro verdetto. Proprio nello stesso momento i nostri due amici e va a finire sempre così – si alzeranno e se ne andranno via insieme, dopo averci spiegato che l’uno era daltonico e il secondo era finito fuori strada con la macchina. In ogni caso, volontari o involontari che siano, i codici di prima comunicazione possono essere positivi o negativi ai fini dell’approccio. Quanto più importante è avvicinarsi al prossimo tanta maggiore attenzione va destinata all’intero problema. Poi, con estrema libertà, ciascuno di noi può vestirsi interamente di rosa o imbrattarsi le mani di merda.
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La macchina della Mediocrità
Le pene per chi degrada il linguaggio dovrebbero essere severe. Non serve come alibi la risata di risposta di un vasto pubblico, non si accetta come giustificazione il fatto di avere confezionato un prodotto richiesto dal mercato. Già dai tempi di un famigeratissimo personaggio televisivo di nome Pappagone, il problema era evidente nella sua gravità: scemenze gratuite e mimiche insulse trovavano terreno fertile nei telespettatori di tutte le età, che già all’indomani ripetevano a scuola, al bar con gli amici, negli intervalli di lavoro tutte le perle della sera precedente. Un successo incredibile, forse nemmeno previsto dagli autori dei testi. Rari furono i casi in cui l’idiozia trionfò così a lungo. Le settimane passavano, Pappagone non mollava e la situazione andava degenerando. Per fortuna il tempo rimette le cose a posto, l’idiozia ritrova il suo andazzo normale, senza eccessi, e la vita continua. Ma ogni tanto qualcuno rimette il dito nella piaga e si ricomincia da capo. La volgarità, quella gratuita, inutile, oltraggiosa, ricompare ad ogni piè sospinto. Basta un Salce convinto di fare commedia all’italiana o un Villaggio disposto a ripetere per la milionesima volta le sue battute, che il rischio di contagio si riaffaccia prepotente. Le serate si ripopolano di imitatori di questi eroi popolari e la degradazione riaffiora. Al di là di questi pochi esempi, c’è la situazione generale articolata spesso su schemi simili a quelli descritti. Ci sono posti, posizioni di netto privilegio che andrebbero raggiunti per meriti reali. Gli uomini destinati a queste situazioni dovrebbero essere capaci, consci dei propri limiti, responsabili.
Prima ancora che critici verso il mondo dovrebbero esserlo con se stessi. In realtà questi uomini ci sono.
Prendiamo un giornale, un quotidiano qualsiasi che esprime delle opinioni, un vero banco di prova per chi ha accesso alla stampa. Esprimere le proprie idee, analizzare una situazione dando dei giudizi non è il semplice resoconto di un avvenimento qualsiasi. Si tratta di un’operazione piena di rischi e di responsabilità: si ha di fronte un pubblico che non si conosce, da una parte pronto a capire, a confrontare le frasi lette con le proprie idee, pronto ad un ipotetico dibattito, dall’altra disposto a farsi condizionare, a fare propri i temi discussi nelle colonne del “suo” giornale. Chi scrive è su una torre. Sa benissimo che il dibattito non ci sarà mai e che se qualcuno vorrà uno scontro lo dovrà cercare nell’ambito del privato, lontano dall’attenzione del grosso pubblico. Se ci sarà lotta le armi saranno impari. Anche per questo il giornalista è costretto ad amministrare quotidianamente privilegi che il suo lavoro gli concede. Di solito ciò avviene con serenità, con capacità di giudizio, con onestà, con intelligenza. Ma cosa succede se manca uno di questi elementi? Se manca l’ultimo, per esempio – e così escludiamo discorsi troppo duri – chi riceve il danno maggiore? Il giornale ovviamente non si pone nemmeno il problema, altrimenti lo avrebbe risolto in partenza. L’imbecille nemmeno, anzi, molto probabilmente è estremamente sicuro di avere grosse doti.
Il pubblico? Il pubblico è terreno fertile. Statisticamente ride per Pappagone, ride per Salce e per Villaggio. In mezzo al pubblico c’è però chi non ama l’idiozia, chi odia i meccanismi di scalata alle posizioni di privilegio, che non ammette in simili situazioni ci possano finire dei disonesti o degli imbecilli. Ma non c’è niente da fare, la Macchina della Mediocrità è troppo potente, i suoi ingranaggi girano inarrestabili, pronti a stritolare chi cerchi di rallentarli. Nasce così una sensazione di impotenza che di giorno in giorno si accentua. E ogni giorno ci rattrista sempre di più l’idea che sarebbe stato meglio per tutti non piantare su un terreno fertile solo ortiche.
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Prima ancora che critici verso il mondo dovrebbero esserlo con se stessi. In realtà questi uomini ci sono.
Prendiamo un giornale, un quotidiano qualsiasi che esprime delle opinioni, un vero banco di prova per chi ha accesso alla stampa. Esprimere le proprie idee, analizzare una situazione dando dei giudizi non è il semplice resoconto di un avvenimento qualsiasi. Si tratta di un’operazione piena di rischi e di responsabilità: si ha di fronte un pubblico che non si conosce, da una parte pronto a capire, a confrontare le frasi lette con le proprie idee, pronto ad un ipotetico dibattito, dall’altra disposto a farsi condizionare, a fare propri i temi discussi nelle colonne del “suo” giornale. Chi scrive è su una torre. Sa benissimo che il dibattito non ci sarà mai e che se qualcuno vorrà uno scontro lo dovrà cercare nell’ambito del privato, lontano dall’attenzione del grosso pubblico. Se ci sarà lotta le armi saranno impari. Anche per questo il giornalista è costretto ad amministrare quotidianamente privilegi che il suo lavoro gli concede. Di solito ciò avviene con serenità, con capacità di giudizio, con onestà, con intelligenza. Ma cosa succede se manca uno di questi elementi? Se manca l’ultimo, per esempio – e così escludiamo discorsi troppo duri – chi riceve il danno maggiore? Il giornale ovviamente non si pone nemmeno il problema, altrimenti lo avrebbe risolto in partenza. L’imbecille nemmeno, anzi, molto probabilmente è estremamente sicuro di avere grosse doti.
Il pubblico? Il pubblico è terreno fertile. Statisticamente ride per Pappagone, ride per Salce e per Villaggio. In mezzo al pubblico c’è però chi non ama l’idiozia, chi odia i meccanismi di scalata alle posizioni di privilegio, che non ammette in simili situazioni ci possano finire dei disonesti o degli imbecilli. Ma non c’è niente da fare, la Macchina della Mediocrità è troppo potente, i suoi ingranaggi girano inarrestabili, pronti a stritolare chi cerchi di rallentarli. Nasce così una sensazione di impotenza che di giorno in giorno si accentua. E ogni giorno ci rattrista sempre di più l’idea che sarebbe stato meglio per tutti non piantare su un terreno fertile solo ortiche.
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