20071217

La macchina della Mediocrità

Le pene per chi degrada il linguaggio dovrebbero essere severe. Non serve come alibi la risata di risposta di un vasto pubblico, non si accetta come giustificazione il fatto di avere confezionato un prodotto richiesto dal mercato. Già dai tempi di un famigeratissimo personaggio televisivo di nome Pappagone, il problema era evidente nella sua gravità: scemenze gratuite e mimiche insulse trovavano terreno fertile nei telespettatori di tutte le età, che già all’indomani ripetevano a scuola, al bar con gli amici, negli intervalli di lavoro tutte le perle della sera precedente. Un successo incredibile, forse nemmeno previsto dagli autori dei testi. Rari furono i casi in cui l’idiozia trionfò così a lungo. Le settimane passavano, Pappagone non mollava e la situazione andava degenerando. Per fortuna il tempo rimette le cose a posto, l’idiozia ritrova il suo andazzo normale, senza eccessi, e la vita continua. Ma ogni tanto qualcuno rimette il dito nella piaga e si ricomincia da capo. La volgarità, quella gratuita, inutile, oltraggiosa, ricompare ad ogni piè sospinto. Basta un Salce convinto di fare commedia all’italiana o un Villaggio disposto a ripetere per la milionesima volta le sue battute, che il rischio di contagio si riaffaccia prepotente. Le serate si ripopolano di imitatori di questi eroi popolari e la degradazione riaffiora. Al di là di questi pochi esempi, c’è la situazione generale articolata spesso su schemi simili a quelli descritti. Ci sono posti, posizioni di netto privilegio che andrebbero raggiunti per meriti reali. Gli uomini destinati a queste situazioni dovrebbero essere capaci, consci dei propri limiti, responsabili.
Prima ancora che critici verso il mondo dovrebbero esserlo con se stessi. In realtà questi uomini ci sono.
Prendiamo un giornale, un quotidiano qualsiasi che esprime delle opinioni, un vero banco di prova per chi ha accesso alla stampa. Esprimere le proprie idee, analizzare una situazione dando dei giudizi non è il semplice resoconto di un avvenimento qualsiasi. Si tratta di un’operazione piena di rischi e di responsabilità: si ha di fronte un pubblico che non si conosce, da una parte pronto a capire, a confrontare le frasi lette con le proprie idee, pronto ad un ipotetico dibattito, dall’altra disposto a farsi condizionare, a fare propri i temi discussi nelle colonne del “suo” giornale. Chi scrive è su una torre. Sa benissimo che il dibattito non ci sarà mai e che se qualcuno vorrà uno scontro lo dovrà cercare nell’ambito del privato, lontano dall’attenzione del grosso pubblico. Se ci sarà lotta le armi saranno impari. Anche per questo il giornalista è costretto ad amministrare quotidianamente privilegi che il suo lavoro gli concede. Di solito ciò avviene con serenità, con capacità di giudizio, con onestà, con intelligenza. Ma cosa succede se manca uno di questi elementi? Se manca l’ultimo, per esempio – e così escludiamo discorsi troppo duri – chi riceve il danno maggiore? Il giornale ovviamente non si pone nemmeno il problema, altrimenti lo avrebbe risolto in partenza. L’imbecille nemmeno, anzi, molto probabilmente è estremamente sicuro di avere grosse doti.
Il pubblico? Il pubblico è terreno fertile. Statisticamente ride per Pappagone, ride per Salce e per Villaggio. In mezzo al pubblico c’è però chi non ama l’idiozia, chi odia i meccanismi di scalata alle posizioni di privilegio, che non ammette in simili situazioni ci possano finire dei disonesti o degli imbecilli. Ma non c’è niente da fare, la Macchina della Mediocrità è troppo potente, i suoi ingranaggi girano inarrestabili, pronti a stritolare chi cerchi di rallentarli. Nasce così una sensazione di impotenza che di giorno in giorno si accentua. E ogni giorno ci rattrista sempre di più l’idea che sarebbe stato meglio per tutti non piantare su un terreno fertile solo ortiche.

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