20071217

Lasciapassare per meditare

Siamo divenuti più attenti. La nostra epoca ci ha dotati di un senso in più, la visione. Noi spesso non guardiamo, visioniamo. Vediamo con attenzione, estrapolando dall’immagine tutta una serie di considerazioni, operazione che pochi, prima d’ora, facevano. Nell’osservazione di un quadro, per esempio, c’era la necessità di riconoscere l’oggetto raffigurato, dava sicurezza riuscirci, tranquillizzava. Tutto ciò non ha più importanza, siamo sottoposti a bombardamenti visivi; l’occhio ci trasmette con frequenza immagini che vengono decodificate solo attraverso un commento sonoro o una didascalia. Le accettiamo ugualmente, le visioniamo, le memorizziamo, ma spesso non le vediamo, nel senso che vedere vuol dire anche avvicinarsi al reale. Vediamo il televisore, e come oggetto lo identifichiamo. Vediamo i prodotti che il televisore ci sforna, ci abituiamo alle due dimensioni dell’immagine teletrasmessa, ai suoi colori che tentano di riprodurre quelli della realtà, riconosciamo prima l’essenza di immagine televisiva che non la realtà che in essa è riprodotta. Sfogliando una rivista illustrata ci accade una cosa simile: vediamo dapprima, nella sua evidenza, il foglio di carta stampata all’interno del quale, solo in una fase immediatamente successiva riconosciamo la realtà propostaci dall’immagine fotografica. Abituati come siamo a questo processo in due tempi, lo utilizziamo liberamente anche in assenza di un mezzo di comunicazione; riusciamo sempre – immaginiamo di essere su un viottolo di campagna al tramonto – ad isolare un pezzo della realtà circostante e a memorizzarlo. Ripensando a quell’attimo riusciremo a recuperare il ricordo visivo; se saremo attenti ci accorgeremo che si tratta di un’immagine piatta dove la realtà è stata riportata alle due dimensioni che ci sono ormai abituali. Sostanzialmente non facciamo altro che fotografare la realtà, continuando ad isolarne le fette che a noi in quel momento interessano o che producono in noi precise sensazioni. Automaticamente effettuiamo una selezione delle informazioni, tratteniamo per noi quelle che ci servono e scartiamo le altre.
C’è un momento della nostra vita in cui ci troviamo a nostro agio ed è quando abbiamo la macchina fotografica in mano, uno strumento per la registrazione di informazioni, coerente con il nostro metodo di assimilazione. Attraverso il mirino isoliamo senza fatica quella parte del reale che ci interessa, con un occhio solo la rendiamo piatta, la confrontiamo automaticamente con immagini simili che fanno parte della nostra cultura visiva e, schiacciando il pulsante al momento giusto, introduciamo nella fotografia la nostra identità. Questo metodo poi ci permetterà di comunicare ad altri cosa abbiamo visto e cosa abbiano cercato di evidenziare, così potremo togliere oggettività a quanto c’era da vedere e ad introdurre soggettività. Tutta questa serie di
operazioni ci permette di isolarci durante la fase di ripresa, di isolarci successivamente nella fase di analisi e selezione del materiale per scegliere poi il momento migliore per rientrare in contatto con gli altri mostrando loro la fetta migliore della nostra produzione per riceverne il consenso.
Rovesciamo ora il problema: ci sono momenti in cui siamo soli, sia perché lo preferiamo, sia perché siamo obbligati ad esserlo dalle circostanze. Ci accorgiamo subito, e l’abbiano già detto in altra parte di questo libro, che l’individuo solo è ansiogeno, crea negli altri un supplemento di attenzione, nei suoi confronti c’è un atteggiamento di estrema circospezione. Questo clima di sospetto prima. o poi, consciamente o meno, comincia ad agire su di noi, produce l’unica reazione possibile, la necessità, nel nostro fare niente, di crearci un alibi. Ci dobbiamo travestire, dobbiamo diventare uno che fa qualcosa: solo così potremo mimetizzarci e tornare ad essere uno dei tanti.
È l’attività, anzi l’evidenza dell’attività, che ci permette di scomparire dall’attenzione dei più. Meditare, indugiare, muoversi a passi lenti, osservare, non ci è concesso in presenza d’altri, testimoni e giudici di una scelta contemplativa non autorizzata dalle regole vigenti. Una semplice attività fisica è sufficiente per scagionare un solitario: un ciclista si può anche permettere di meditare perché viene decodificato dall’osservatore come uno che va in bicicletta, uno che sta facendo qualcosa.
E così un pescatore sta pescando, un guidatore sta guidando, uno che legge sta leggendo. Ciascuno di essi può anche meditare purché svolga un’attività di copertura sufficiente a creare il mimetismo necessario. La macchina fotografica diviene in quest’ottica – buffo il gioco di parole – un eccellente alibi. Basta esibirla come lasciapassare e siamo autorizzati a meditare, indugiare, a muoverci a passi lenti, ad osservare, un’attività – e questa volta la scelta diviene attività – contemplativa, necessaria e perfettamente coerente. Siamo autorizzati ad osservare, a diventare indiscreti, possiamo invadere addirittura la sfera privata degli altri senza procurare eccessive tensioni perché in fin dei conti stiamo fotografando, solo fotografando. Procurarci, seguendo questo metodo, un lasciapassare per le varie situazioni diventa facile, ci permette in ogni caso di cercare e di trovare l’alibi a noi più congeniale, quello che addirittura ci procuri piacere. È necessario però che la nostra macchina fotografica non sia verniciata di rosa perché non potremo certo trovare la scusa di essere daltonici.

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