20071217
Il colore della libertà
È difficilissimo parlare di libertà. Succede sempre che prima o poi si prevaricano gli altri, che le discussioni diventano aggressioni e, se l’interlocutore se ne sta, si passa subito alla rissa. Quando si analizza un concetto astratto, è inevitabile che le prese di posizione siano del tutto soggettive
anche perché manca qualsiasi punto di riferimento convenuto che possa avviare un discorso meno parziale. Le frasi si trasformano con facilità in dogmi e di fronte ad un dogma non c’è difesa, si è spinti nell’angolo si è costretti a reagire. E proprio di dogmi si tratta e il discorso è un atto di fede e come al solito, per affermare la propria, si è disposti a mandare al rogo chiunque sia contrario, o a rompergli il muso nel caso sia necessario.
C’è sempre chi aggredisce per primo e c’è di conseguenza chi viene aggredito: costui di solito è paziente, tranquillo, educato, pronto a concedere spazio e opinioni all’interlocutore, l’altro di solito parla di libertà, ma è il primo che ne porta avanti il vessillo. Ma c’è un limite a tutto e prima o poi, dopo la centesima provocazione di colore culturale, di colore ideologico e di colore politico, l’aggredito reagisce e proclama il bianco come re dei colori, il più bello. E come previsto scoppia la rissa. È inevitabile perché essere pazienti, tranquilli, educati e concilianti non vuol dire essere deboli e sopportare soprusi e prevaricazioni. Ci sono ideologie che per tradizione non si
dichiarano, non ne hanno bisogno, non c’è rivendicazione in esse, ci sono certezze verificate, che non hanno necessità di essere proclamate, esistono e basta. La controparte è rivoluzionaria, non si accontenta di una situazione, spesso costruita sul compromesso, che permetta soluzioni costanti, che cerchi di mantenere un certo equilibrio, che faccia sì che ci possiamo muovere come se non stesse succedendo niente, niente di nuovo, niente di grave. Tinte pastello non devono esserci, la nuova tavolozza vuole solo tinte fosche.
C’è gente, e tanta, che non per interesse ma per istinto ama e vuole continuare ad amare gli altri come li ha amati in passato, secondo gli schemi della tradizione, in un mondo che, checché se ne dica, continua a funzionare. Parliamo di gente che agisce, che parla, che comunica; gente che conosce il mondo e ne ha fatto una scelta di partecipazione e non di alterazione, di mutazione, gente che conosce il sacrificio, che lotta contro il dolore vicino e non per cause lontane. Gente che dai propri modelli ha assorbito il bene e rifiutato il male per portare avanti un discorso dove tradizione e innovazione coesistono con facilità.
Dall’altra parte c’è gente, e tanta, che lavora, lotta, agisce, si muove, per frantumare tutti i legami col passato, per creare una società diversa, nuova, senza ricordi positivi. Gente che ha subito pressioni, angherie, vessazioni, che è passata attraverso ogni tristezza, ogni frustrazione. E allora questa gente che non può appigliarsi al passato per decidere la strada giusta da seguire, compone teorie, cerca di creare una cultura nuova della rivincita, della reazione di gruppo dimenticandosi che il proprio gruppo è troppo ampio perché generalizzare sia semplice, sia corretto e soprattutto sia giusto. Generalizzare vuol dire di nuovo teoria perché in pratica, le persone, se vogliono comunicare, devono assemblarsi in piccoli gruppi omogenei, dove un gesto o una parola abbiano lo stesso significato per tutti. Occhio per occhio, come riscatto della propria condizione, diventa violenza, presupposto errato se la meta da raggiungere è la pace. Appare di conseguenza impossibile una composizione di una vertenza vecchia quanto il mondo, e l’unica possibile via d’uscita per cercare la libertà è la sopraffazione dell’altro. È la tipica situazione di stallo, un vicolo cieco che impone delle pause di riflessione, che ci permetterà di capire, con l’andare del tempo, se vale la pena di lottare per chi ha bisogno di noi, a due passi da noi, o per chi ha bisogno di noi – o di altri – a migliaia di chilometri da noi. Aprire gli occhi – e possibilmente anche il cervello – per capire che cosa è giusto, o per lo meno, per decidere l’ordine di priorità con cui affrontare i problemi che ci circondano, potrebbe essere la soluzione.
C’è bisogno di tempo per riuscirci e non è una giustificazione sufficiente la convinzione di non averne a sufficienza. Senza il tempo si continuerà da una parte a cercare di demolire fedi preconcette e dall’altra a continuare a crederci ciecamente con l’unico risultato di affermare la libertà con la sopraffazione degli altri.
Indice
anche perché manca qualsiasi punto di riferimento convenuto che possa avviare un discorso meno parziale. Le frasi si trasformano con facilità in dogmi e di fronte ad un dogma non c’è difesa, si è spinti nell’angolo si è costretti a reagire. E proprio di dogmi si tratta e il discorso è un atto di fede e come al solito, per affermare la propria, si è disposti a mandare al rogo chiunque sia contrario, o a rompergli il muso nel caso sia necessario.
C’è sempre chi aggredisce per primo e c’è di conseguenza chi viene aggredito: costui di solito è paziente, tranquillo, educato, pronto a concedere spazio e opinioni all’interlocutore, l’altro di solito parla di libertà, ma è il primo che ne porta avanti il vessillo. Ma c’è un limite a tutto e prima o poi, dopo la centesima provocazione di colore culturale, di colore ideologico e di colore politico, l’aggredito reagisce e proclama il bianco come re dei colori, il più bello. E come previsto scoppia la rissa. È inevitabile perché essere pazienti, tranquilli, educati e concilianti non vuol dire essere deboli e sopportare soprusi e prevaricazioni. Ci sono ideologie che per tradizione non si
dichiarano, non ne hanno bisogno, non c’è rivendicazione in esse, ci sono certezze verificate, che non hanno necessità di essere proclamate, esistono e basta. La controparte è rivoluzionaria, non si accontenta di una situazione, spesso costruita sul compromesso, che permetta soluzioni costanti, che cerchi di mantenere un certo equilibrio, che faccia sì che ci possiamo muovere come se non stesse succedendo niente, niente di nuovo, niente di grave. Tinte pastello non devono esserci, la nuova tavolozza vuole solo tinte fosche.
C’è gente, e tanta, che non per interesse ma per istinto ama e vuole continuare ad amare gli altri come li ha amati in passato, secondo gli schemi della tradizione, in un mondo che, checché se ne dica, continua a funzionare. Parliamo di gente che agisce, che parla, che comunica; gente che conosce il mondo e ne ha fatto una scelta di partecipazione e non di alterazione, di mutazione, gente che conosce il sacrificio, che lotta contro il dolore vicino e non per cause lontane. Gente che dai propri modelli ha assorbito il bene e rifiutato il male per portare avanti un discorso dove tradizione e innovazione coesistono con facilità.
Dall’altra parte c’è gente, e tanta, che lavora, lotta, agisce, si muove, per frantumare tutti i legami col passato, per creare una società diversa, nuova, senza ricordi positivi. Gente che ha subito pressioni, angherie, vessazioni, che è passata attraverso ogni tristezza, ogni frustrazione. E allora questa gente che non può appigliarsi al passato per decidere la strada giusta da seguire, compone teorie, cerca di creare una cultura nuova della rivincita, della reazione di gruppo dimenticandosi che il proprio gruppo è troppo ampio perché generalizzare sia semplice, sia corretto e soprattutto sia giusto. Generalizzare vuol dire di nuovo teoria perché in pratica, le persone, se vogliono comunicare, devono assemblarsi in piccoli gruppi omogenei, dove un gesto o una parola abbiano lo stesso significato per tutti. Occhio per occhio, come riscatto della propria condizione, diventa violenza, presupposto errato se la meta da raggiungere è la pace. Appare di conseguenza impossibile una composizione di una vertenza vecchia quanto il mondo, e l’unica possibile via d’uscita per cercare la libertà è la sopraffazione dell’altro. È la tipica situazione di stallo, un vicolo cieco che impone delle pause di riflessione, che ci permetterà di capire, con l’andare del tempo, se vale la pena di lottare per chi ha bisogno di noi, a due passi da noi, o per chi ha bisogno di noi – o di altri – a migliaia di chilometri da noi. Aprire gli occhi – e possibilmente anche il cervello – per capire che cosa è giusto, o per lo meno, per decidere l’ordine di priorità con cui affrontare i problemi che ci circondano, potrebbe essere la soluzione.
C’è bisogno di tempo per riuscirci e non è una giustificazione sufficiente la convinzione di non averne a sufficienza. Senza il tempo si continuerà da una parte a cercare di demolire fedi preconcette e dall’altra a continuare a crederci ciecamente con l’unico risultato di affermare la libertà con la sopraffazione degli altri.
Indice
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento